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"IL FALSARIO DI CALTAGIRONE" DI MARIA ATTANASIO - RECENSIONE DI ELISA MANDARA'

 

  Maria Attanasio,

“Il  falsario di  Caltagirone” (Sellerio, 2007) 

 

«Io sono poeta». Tanto asserisce Maria Attanasio riferendosi al suo recente Falsario di Caltagirone (Sellerio, 2007), con una rivendicazione della corda primariamente e squisitamente lirica che da sempre le si individua nitida, non esaurendo però l’ispirazione (e la bibliografia) dell’autrice calatina.

Il libro è infatti un romanzo, coerente alle precedenti prove, dunque ancorato al dato reale. Notizie e ragguagli sul curioso caso di Paolo Ciulla: il sottotitolo allude al carattere cronachistico del testo, alla volontà di vero, con le ovvie licenze alla fantasia e alla creatività dell’autore. Reale infatti Paolo Ciulla, di Caltagirone, vissuto tra il 1867 e il 1931. Pittore raffinato e sensitivo, con l’eccellenza dell’originalità anche nella riproduzione dei maestri del colore ai quali chiede «ausilio e perdono», Ciulla si muove in espiazione della ‘macchia’ dell’omosessualità, beffeggiata quale tratto di umanità inferiore da una retriva Sicilia di fine ottocento, fedelmente riportata dalla Attanasio non solo nella geografia fisica ed umana, ma nelle coordinate spaziotemporali.

Il romanzo, programmaticamente aderente al vero come si evince anche dal Pretesto, organizza i materiali, documentari e d’invenzione, in pannelli narrativi corrispondenti ad altrettante sequenze logiche e diacroniche. I fatti storici intrecciati dal protagonista nel nomadismo perenne di artista e di uomo compongono molto più che una cornice accessoria alla fabula; rappresentano l’intelaiatura stessa, quasi una seconda finalità del libro: rivivono i Fasci siciliani, i fermenti dei vari socialismi, il vitalismo e i limiti dei partiti operai, la loro impensabile vittoria, in tanti comuni siciliani, del 1889, la guerra coloniale, le atmosfere parigine, l’America latina, con una volontà prepotente di storia che non appesantisce mai la narrazione, l’arte. Nell’adozione della storicità a prospettiva primaria (si fa esplicito riferimento a testate giornalistiche calatine e a precisi articoli datati), Maria Attanasio punta alla ricreazione del clima anche linguistico del tempo e del luogo, con l’inserzione discretissima di regionalismi e dialetto, in un registro miscidato ma limpido, che risente pure della commistione con gli artifici della poesia, delle metafore, della metonimia, di una letterarietà insomma che si spinge talora fino alla citazione (dantesca, per esempio). D’altronde una poeticità, forse preterintenzionale ma certa, possiede anzitutto il protagonista, che, da pittore e fotografo, si trasformerà in falsario, in prodigioso artefice di denaro finto che l’artista destinerà alle frange sociali sempre scordate dalle istituzioni statali.

Come si giustifica l’inversione etica dell’eroe positivo di un romanzo? Nessuna frattura tra le diverse sequenze del testo: Paolo Ciulla si fa sacerdote di valori assoluti, che, in quanto tali, prescindono dai vincoli meramente legali: egli è «l’artista che per sete di giustizia si fa giustiziere di uno stato sordo e lontano», commenta la narratrice quasi onnisciente, ricorrendo alla figura etimologica che enfatizza l’essenza di tale personaggio, la sua ragione storica. Dentro la condotta irregolare, provocatoria di Ciulla risiede la sua sensibilità sociale, che, fino al momento della risoluzione alla falsificazione delle banconote, aveva trovato teorica canalizzazione, in ciascuna delle sue diverse vite, al di qua o al di là dell’oceano, nella vicinanza a movimenti popolari o in frequentazioni anarchiche. La teoria prende corpo e peso, diviene consapevolezza politica: si accampano nitide quali parole chiave dell’ennesima stagione esistenziale del protagonista «Gramsci», «soviet», «comunismo», «futuro», e il libro non teme di risultare marcato ideologicamente. Forte del consueteo coraggio intellettuale, Maria Attanasio cita in epigrafe un icastico Brecht: «la madre del fascismo è sempre incinta».

Da questa speciale specola, dell’engagement scoperto, va riconsiderato anche il senso del maledettismo del calatino, che, punto dalla spasmodica umanissima ricerca della autoidentificazione – sociale, artistica, sessuale, per cui il libro è anche romanzo di formazione e di archeologia psicologica – nella minuscola misura antropologica siciliana, poi in una Parigi da sempre idealizzata a icona di sbrigliatezza spirituale, quindi nei pittoreschi meridioni d’oltreoceano, incorre nella tentazione ai paradisi artificiali dell’alcool e dell’hashish, la cui «leggerezza eccitante» era preferita «alla sonnolenza crepuscolare dell’oppio». Rischia pure di cedere per sempre al demone che agita spesso inquieto le anime sensitive, rischia il turbine cieco della follia. Ciulla travalica dunque le canonizzazioni banali di artista maudit, e il costume sociale, ossia la conquistata libertà d’essere, non lo rendono, nell’opposizione radicale al negativo sociale, un nichilista parassita impermeabile al proprio tempo. Lo conducono alla rivolta, alla lotta, a funzionalizzare dunque la propria eccellenza artistica all’agire eversivo eppure costruttivo.

L’intreccio riporta evidentemente, e con forza, al dibattutissimo rapporto tra intellettuale e potere, reiterato da pensatori di tutte le epoche. La Attanasio pare ammatassare armonicamente contributi essenziali sul tema: quello di Fichte, che riteneva il filosofo promotore del progresso dell’umanità, e di Gentile, che fa dell’uomo di cultura l’ideatore dello Stato etico, di Gramsci, Sartre e Nizan, per i quali l’arte è funzione sociale; e ancora la concezione di Norberto Bobbio che valuta responsabilità primaria dell’intellettuale quella di seminare dubbi, piuttosto che il raccogliere certezze. Nel personaggio del Falsario di Caltagirone si avverte poi quasi il controcanto di Umberto Eco, il quale, superate le idealizzazioni romantiche, interrogandosi concretamente su ruoli e compiti, definisce funzione intellettuale quella di chi «sia lavorando con la testa che pensando con le mani, contribuisce creativamente al sapere e al bene collettivo».

La voce primariamente poetica di Maria Attanasio converte dunque, in questo nostro prosaicissimo tempo, la parola raziocinante del filosofo, dandole forma di arte nella figura storica di Paolo Ciulla, sublimando in immagini e divertissement la convinzione alta che due siano «i cardini del mondo: la forza della giustizia e la verità della bellezza».

 

                                                                                    Elisa Mandarà

 

 
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