Senza soccombere alla inevitabilità vestirsi di un sorriso di rosa per osservare il pioppo quasi tremulo sull’acqua. Quel tanto che basta a riprendere il filo appena slacciato uscire dal labirinto del noto della parola corrotta del gesto mortificato e nascosto. Fuori dove il mattino si bagna di luce e la terra si fa trono.
Giovanna la pazza. Regina
Il giorno dopo ti amai di nuovo. Guarita certo dalla febbre nessuna traccia di soddisfatto stupore alle tue caute domande. Tornerai ancora perché senti l’odore del sangue, perché sul palmo della mano porto ancora il tuo nome e al setaccio ho passato nomi e volti delusioni e rancori. Perché la gemma del mio amore restasse intatta. E tu viaggerai a lungo gigante fragile, per una mancanza che ti assedierà e che non avrà risposta da altre labbra. E’ la morte che non sai guardare è il suo odore che ti nausea, ed è ciò che mi porterai quando la sentirai arrivare, perché sulla lingua io tenga la sua punta di ghiaccio e la baci. Calipso Ho una conchiglia in cuore come un germoglio. Dono ricevuto dagli dei per la custodia dell’isola verde, delle sue grotte sacre del coro aranciato dalle cicale. Incisi sulla spirale, segni antichi in lingua a me straniera. Dentro ci cresce la tamerice e il mirto ci vola la tortora ambrata. Dentro non c’è fame né di abbraccio né di parola, che il mio destino è nella morbidezza dell’onda che tocca appena e si allontana. Battito di mare, lascia sulla pelle minuscole gemme di sale. Così senza tristezza guardo alla tua vela, alla zattera che per te ho preparato, così senza fretta ricompongo i frammenti del mio specchio infranto. Per l’immagine fluttuante di me sul letto della sorgente spalancata. Aspetta Aspetta. Intanto il rosso rubino in calice, allunga con dolcezza le ombre e le fa tiepide. Smorzo la parola per l’odore gelsomino che non ha domanda che non ha risposta. Lo senti anche tu? Un leggero crepitio in cielo apre i portali. Sogni. Sciamano le note d’infanzia da un piano in una penombra estiva, rotola via un bottoncino si perde nell’erba umida. Tutto davvero è lontano. Alto sopra il bianco cortile.
Dal treno
Un’alba di tenerissimo viola fatica a staccarsi dalle zolle, leggera, quasi evanescente, trascolora i grigi filari della terra che è stata mia. Riconosco i cani gialli e arruffati con crepe di nostalgia nell’iride, e la cima della scala ricovero di fantasmi e munacielli, e me, ubriaca, dai racconti della nonna fradici di visioni antiche.
Riconosco lo specchio acceso dai lumini e dal sonno di lei, dove i nostri morti rinvenivano. Il loro bisbiglio per me sola. Piccola davvero.
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