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TERESA MARINIELLO

 

 


Senza soccombere alla inevitabilità
vestirsi di un sorriso di rosa
per osservare il pioppo
quasi tremulo sull’acqua.
Quel tanto che basta
a riprendere il filo appena slacciato
uscire dal labirinto del noto
della parola corrotta
del gesto mortificato e nascosto.
Fuori
dove il mattino si bagna di luce
e la terra si fa trono.

 


Giovanna la pazza. Regina

 

Il giorno dopo ti amai di nuovo.
Guarita certo dalla febbre
nessuna traccia di soddisfatto stupore
alle tue caute domande.
Tornerai ancora
perché senti l’odore del sangue,
perché sul palmo della mano
porto ancora il tuo nome
e al setaccio ho passato
nomi e volti
delusioni e rancori.
Perché la gemma del mio amore
restasse intatta.

E tu viaggerai a lungo
gigante fragile,
per una mancanza
che ti assedierà
e che non avrà risposta
da altre labbra.
E’ la morte che non sai guardare
è il suo odore che ti nausea,
ed è ciò che mi porterai
quando la sentirai arrivare,
perché sulla lingua
io tenga la sua punta di ghiaccio
e la baci.

 

 

Calipso

 

Ho una conchiglia in cuore
come un germoglio.
Dono ricevuto dagli dei
per la custodia dell’isola verde,
delle sue grotte sacre
del coro aranciato dalle cicale.
Incisi sulla spirale, segni antichi
in lingua a me straniera.
Dentro ci cresce
la tamerice e il mirto
ci vola
la tortora ambrata.
Dentro non c’è fame
né di abbraccio né di parola,
che il mio destino
è nella morbidezza dell’onda
che tocca appena e si allontana.
Battito di mare, lascia sulla pelle
minuscole gemme di sale.

Così senza tristezza
guardo alla tua vela, alla zattera
che per te ho preparato,
così senza fretta
ricompongo i frammenti
del mio specchio infranto.
Per l’immagine fluttuante di me
sul letto della sorgente spalancata.

 

 

Aspetta

 


Aspetta.
Intanto il rosso rubino in calice,
allunga con dolcezza le ombre
e le fa tiepide.
Smorzo la parola
per l’odore gelsomino
che non ha domanda
che non ha risposta.
Lo senti anche tu?
Un leggero crepitio in cielo
apre i portali. Sogni.
Sciamano le note d’infanzia
da un piano
in una penombra estiva,
rotola via un bottoncino
si perde nell’erba umida.
Tutto davvero è lontano.
Alto sopra il bianco cortile.

 

 


Dal treno

 


Un’alba di tenerissimo viola
fatica a staccarsi dalle zolle,
leggera, quasi evanescente,
trascolora i grigi filari
della terra che è stata mia.
Riconosco i cani gialli e arruffati
con crepe di nostalgia nell’iride,
e la cima della scala
ricovero di fantasmi e munacielli,
e me, ubriaca,
dai racconti della nonna
fradici di visioni antiche.

Riconosco lo specchio
acceso dai lumini e dal sonno di lei,
dove i nostri morti rinvenivano.
Il loro bisbiglio per me sola.
Piccola davvero.

 

 

 
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