ALESSANDRO CARRERA |
III. L’universo dalla Terza Strada
I edizione ottobre 2006 - stampato da Digital Print Srl, Segrate (Milano)
. L’universo dalla Terza Strada
Non appena il sole sarà spento tra cinque miliardi di anni la nostra galassia troverà sulla sua strada la nebulosa di Andromeda altrimenti detta M31 a due virgola due milioni di anni luce.
Per adesso Andromeda è dove è sempre stata: alcuni gradi sotto, alla destra dello sbaffo di nome Cassiopea che pare una M rovesciata a mezzo cielo guardando su a nordest quando è ora di dormire alla fine dell’estate.
Nelle notizie che si passano le stelle lo scontro di galassie è già imminente. Sei, settecento miliardi di bianche nane e di giganti rosse, non contando i pianeti, come un bel tamponamento in autostrada.
Sarà un evento memorabile, se ci sarà qualcuno a ricordarlo. Ci dovremmo preoccupare prima o poi. Ma anche adesso non c’è cruccio più serio visto che lo spegnersi del sole a confronto non sarà che un incidente di passaggio.
Distesi in questa camera da letto guardando le stelle in una calda sera di settembre vediamo lo Scorpione uncinare le cime dei palazzi, il Delfino appoggiarsi su un’onda che adotta l’intera Via Lattea come una cresta schiumosa mentre il Sagittario è un grumo proprio là, dove la spirale cade ad arco sui tetti illuminati.
Molto più lontano, M31 (da non dimenticare, M31) sparge una debole nube. Le costellazioni ci sono ancora amiche, per adesso.
Intanto, dall’East River allo Hudson, l’autocarro dei pompieri ha liberato le sue erotiche sirene e gli antifurti accaldati delle auto a intervalli fanfarano di gioia.
Dal nido di piccioni che sta sotto la finestra viene un tubare che è poco diverso dal suono contratto di un pulsar.
I cani immensi dei nostri piccoli vicini frugano ancora il giardino, scoiattoli si lanciano da un ramo a un altro ramo, non più pesanti dell’erba, non più leggeri della brezza.
E’ quasi l’ora che Saturno, ottocento milioni di miglia, quasi nulla, si arrampichi su un cielo giusto ai piedi di Andromeda che ha una luce stasera dell’età di una punta di selce trovata in una grotta.
Il passato ci raggiunge con notizie del futuro, e noi che dal letto guardiamo la vetrata, veneziane tutte alzate, siamo il punto di sezione dove niente è come prima e nessuno avrà modo di sapersi in quello che sarà. Ci dovrebbe venir facile parlarci con la testa sul cuscino. Anche questo è uno stemma molto antico, un’araldica solenne d’onestà.
Però non ci parliamo e fuori il vento sta coprendo di nubi una stella collassata che ha una massa più grande del sole compressa in un diametro di meno di dodici miglia in una raffica di raggi gamma e X che nessuno strumento li vede se non i nostri occhi così umani, e palazzi adesso neri si alzano a sfregiare il tessuto d’orizzonte come chiodi su fiancate di auto nuove.
Niente ci spiega perché nell’alone blu ghiaccio e d’argento sui bordi di un ponte di luce che principia a sfrangiarsi lentamente come un lampo di test nucleari (pare strano che non scoppi in un accordo di flicorni) a noi lontanissimi dall’essere lontani ci viene così greve di trovare parole per noi due che non siano un po’ amare, un po’ insincere.
Eppure abbiamo sangue d’altri amanti nelle vene, lo sentiamo il lavoro che hanno fatto perché nel nostro nulla si insinuasse il ricordo di quell’ira e del calore acceso al loro fianco.
Rendendogli omaggio ci alziamo rimandando altre battute, altri finali di commedia, e stiamo a guardare dai vetri una fine di stella invisibile.
E’ proprio a noi, solo a noi che si trasmette la sua luce come una torcia bruciante nelle mani di uno stravolto maratoneta.
(Mi hai chiesto se mai inventeranno una macchina del tempo e io ti ho detto no perché il passato non esiste.)
Così, non vuoi essere un segno per me, non sarò io lo stesso per te, prima che il firmamento tiri un frego su se stesso, su di noi, e ciò che è accaduto una volta soltanto non sarà revocabile, così come avverrà senza eccezione per ciò che si ripete?
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