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GIANLUCA MASSIMINI, di ENZO REGA

 

L’amore tra epifania e dissolvimento in Gianluca Massimini

di ENZO REGA

 

“Gentile Signora, se avessi più tempo le scriverei una lettera più breve”. Con questa citazione da Voltaire, posta come esergo, il pescarese, trapiantato a Vicenza, Gianluca Massimini apre il suo volume di racconti L’ètà dell’amore (Lampi di stampa, Roma 2010, pp. 78, euro 8). È la stessa frase che Leonardo Sciascia aveva riferito nella postfazione che accompagnava il suo romanzo (breve) Il giorno della civetta. Ciò a dire che la brevità, come ricerca dell’essenza, di ciò che è essenziale, è a sua volta il frutto d’un lungo lavoro, oltre che di capacità di sintesi.
Massimini allora ci propone qui ventitre racconti brevi o brevissimi che hanno qualcosa, nell’andamento, di certa letteratura americana: per intendersi quella che va sotto il nome di minimalismo e che ha in Raymond Carver il suo maggior esponente (Carver che in realtà era meno minimalista di come volle proporlo, con vistosi tagli ai testi, il suo editore americano). I testi di Massimini non sono così crudi, e hanno qualcosa che forse ricorda di più quello che può essere considerato il vero padre del minimalismo, e cioè l’Ernest Hemingwy dei Quarantanove racconti: sia per una certa dimensione estatica, con sospensione del tempo e ipostatizzazione dell’attimo e del dettaglio; sia per molta ambientazione naturalistica, tra mare, soprattutto, boschi e laghi. Un’ambientazione naturalistica che ci fa ricordare, anche in alcuni casi per la grana della voce, un nostrano Cesare Pavese (che, però, sugli americani si era formato e dall’inglese aveva tradotto): “Nudi, allora, del tutto indisturbati, si arroccavano sugli scogli tutti assieme e, sdraiati, godevano del calore che indorava i loro corpi, che chiudeva loro gli occhi, cercando refrigerio ogni tanto nell’acqua salsa e cristallina”, scrive Massimini a p. 16. Ma questa prosa scarta comunque rispetto a una sua possibile identificazione con quella pavesiana; quanto quella era tesa e screziata di dialetto, tanto questa è distesa con un orecchio anche alla scrittura della tradizione italiana per così dire pre-pavesiana, e con il frequente uso anche di forme desuete (così come quando, parenteticamente, osserva l’autore: “come direbbe alcuno”, a p. 66, o, prima ancora, a p. 36, troviamo “a un di presso”). Tono che porta i racconti in una dimensione astorica, spesso sullo sfondo di un paesaggio naturale non sempre geograficamente identificabile (solo procedendo vengono man mano fuori indicazioni toponomastiche italiane o straniere), un paesaggio che si fa estensione psicologica dei personaggi e della loro ricerca di serenità e bellezza, talvolta però con effetti un po’ troppo scontati e da cartolina.
Nonostante l’accanita ricerca d’un rasserenante bello kantiano, la natura viene fuori anche nei suoi aspetti più aspri e selvaggi, aspetto reso, da un punto di vista micro testuale,  anche dal suono delle parole adoperate: vedi, a p. 47, “tra i pruni e gli sterpi”, “rovi e roverelle”, “tra gli sterpi e i botri”. Un paesaggio mediterraneo che assume dunque una sonorità che ci riporta a Montale, in un autore, Massimini, che è comunque molto attento alle voci stesse della natura: “Solo il verso di un verdone o il gorgheggio voluttuoso di un’allodola sembrano a un certo punto spezzare il silenzio” (p. 37). Una natura poi molto presente, qua e là, anche nella precisione botanica.
Il riferimento costante alla natura si fa poi sostanza di quello che è il tema fondamentale del libro, la sessualità e l’amore, declinato in una serie di episodi appunto brevissimi. Amore spesso colto nella sua istantaneità. Qualcosa che capita d’improvviso e che s’esaurisce talvolta anche nello spazio d’un incontro. La misura breve dei singoli racconti ci può far dire, citando il titolo di un famoso libro di Roland Barthes, di trovarci di fronte a Frammenti di un discorso amoroso: l’unico discorso possibile, quello frammentario e frammentato, che può farsi relativamente all’amore, perché nessuna teoria generale e assoluta potrebbe essere formulata. D’altra parte, questi stessi racconti, nel mettere in scena personaggi e momenti diversi, danno l’idea di replicare, con varianti, sempre una stessa scena madre, a volte cadendo anche un po’ nel cliché e nel fotoromanzo: “Di solito, alla sera, tornavano in spiaggia, ad aspettare i falò, o camminavano in piazza, tra viale Mazzini e via Ceccarini; Mathias era affettuoso e Giulia amava abbandonarsi sul suo corpo, senza pensieri”(p. 40). Ma, c’est l’amour, appunto; appunto, è poi caratteristica dell’amore questa ripetizione di un identico che a ciascuno appare però, nella sua personale esperienza, come alcunché di unico e irripetibile.