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Conversazione con ALBERTO ABATE - UGO ENTITA'

 

 

 

 

Ugo Entità: Come, se ricordi, si è costruita la tua individualità artistica?
Alberto Abate: Tu sai che le mie origini hanno radici profonde. Sono radici sicuramente familiari. Io sono nato in una famiglia di artisti. L’arte è stata per me il pane quotidiano, come si dice. Mio padre è stato uno scultore notevole, di grande plasticità. E mio zio Alessandro fu pittore efficace, grande colorista. E quindi, sono vissuto dentro un mondo che ha nutrito la mia fantasia. Da piccolo ero il curatore della biblioteca di mio padre, viaggiavo tra i libri di storia dell’arte, ero già un piccolo esperto d’arte.
U. Entità: Quali i maestri che hanno inciso più profondamente sulla tua formazione?
A. Abate: Sicuramente il primo è stato mio padre. Io credo che il mio rapporto con lui si sia costruito esattamente come si costituivano una volta i rapporti iniziatici. Cioè, il maestro trasmetteva all’allievo  il sapere. In questo caso, il sapere della forma, la conoscenza della elaborazione formale attraverso un meccanismo che andava dall’occhio alla mano. L’occhio che percepiva, la mano che che apprendeva. La mano diventava, in qualche modo, simile alla mano del maestro. C’è una forma di identificazione. Io da bambino, stavo dietro a mio padre e questo processo di integrazione, di osmosi si è sicuramente verificato. D’altronde questa tradizione del maestro e dell’allievo anche nelle culture non logocentriche  avveniva così. Avveniva tra occhio e mano e bocca e orecchio. La Sapienza viene prima del libro. Platone, a proposito dell’invenzione della scrittura, riferisce il mito di Toth che propone ad Amenofi IV, faraone della XVIII dinastia, il testo scritto e questi gli dice:  questo libro puoi leggerlo mille volte, ma ripeterà sempre le stesse cose, se lo interroghi. Le parole rimarranno sempre le stesse. Ben diversa è invece la parola detta. Ora questo incantamento era quello che costruiva l’atto sacrale, l’unità tra allievo e maestro. Sicuramente, mio padre è stato il mio primo maestro, il mio grande iniziatore…Poi, c’è stato anche mio zio, perché vedevo la magia di questo studio, la grande quantità di quadri, di oggetti e quindi, quest’altro mondo è stato un’altra matrice feconda. E poi, tutta la grande tradizione pittorica, Tiziano, Paolo Uccello…Poi, da ragazzi ci si innamora anche di cattivi maestri. Io mi sono innamorato di cattivi maestri.
U. Entità : Quali, per esempio?
A. Abate : I cattivi maestri, almeno dal mio punto di vista, sono da individuare nella modernità. Questo cattivo magistero, anzi, questa negazione della funzione del magistero.
U. Entità : E le letture, i filosofi?
A. Abate : Un filosofo certamente è stato  Friedrich Nietzsche. Mi ha colpito in maniera molto significativa, fin da ragazzo. Da ragazzo ho avuto un grande rapporto con lui. Poi, ovviamente, tutta una certa area eterodossa moderna. Bataille, ad esempio. Ma anche Platone è stato molto importante e Plotino, la filosofia islamica, la filosofia esoterica, indù, il grande mondo greco, Eraclito…Comunque Nietzsche è stato una rivelazione. E’ stato quello che ha dato un colpo a quelle che erano le mie ingenue credenze di fanciullo. Mi ha veramente messo in crisi.
U. Entità : Quale il tuo rapporto con la poesia?
A. Abate : Ho avuto con la poesia, da giovane, un rapporto molto intenso e come tutti i giovani, ho presunto di essere anch’io poeta. La poesia è stata l’incontro col mistero della parola. La parola che evoca, che evoca i mondi. Quel tuo acrostico che ho letto poco fa sembrava così divertito, eppure ho sentito evocata la voce interiore della poesia, il canto iniziale, forse il canto delle sirene che ancora risuona nei versi del poeta. Uno dei grandi personaggi centrali del mio lavoro è Orfeo. Quindi, un cantore, un musico, nel senso delle Muse, non solo della musica.
U. Entità : La critica ama inquadrare e etichettare. La tua è stata da Italo Mussa felicemente definita “ pittura colta”. Ritieni ciò sufficientemente esplicativo o limitante?
A. Abate : Italo diede questa definizione soprattutto del mio lavoro. Poi la estese ad altri, anche perché rientra nella strategia dei critici…Io, debbo dire, non amo moto le definizioni. Sono camicie di Nesso, restringono, accorciano, oppure hanno le maniche più lunghe, da qualche parte…Insomma, il sarto non sempre ti confeziona il vestito giusto.
U. Entità : Il letto di  Procuste
A. Abate : Esatto, il letto di Procuste, per cui non sempre ciò che attiene alla critica ha la misura giusta per te. Questa definizione mi sembra soddisfacente per molti versi. Personalmente, oggi tendo a pensare che la definizione “pittura colta” non esaurisca del tutto il mio lavoro e che, però, all’interno di questa limitazione, è quella che mi appartiene di più, che ha significato sincretico, cioè, campiona vari frammenti, vari mondi, viaggi attraverso la cultura umana. E questo è il mio tentativo.
U. Entità : Mito, raffigurazioni inquietanti, simbologie oniriche, incontri che hanno come sfondo selve ancestrali…Sembra che tu voglia rappresentare l’angoscia dell’uomo moderno
A. Abate : Ho sempre pensato che la relazione che esiste tra il mio lavoro e, forse, il lavoro dell’arte in senso tradizionale, attenga comunque al mito perché in esso si sedimentano mondi, forme, maschere, quindi strutture portatrici di messaggi che non sono dialogiche, che sono e che vivono all’interno della potenza significante dell’immagine. In effetti la parola mito viene dal radicale indoeuropeo mu, da cui deriva onomatopeicamente anche ‘muto’  e che indica un messaggio silente. Per cui il mito è la trasmissione di un sapere che avviene attraverso la forma del silenzio, ma questo silenzio deve essere gremito di figure. Le figure popolano il mito, sono gli eroi del mito. Allora in questo caso, c’è concordanza tra la pittura e il mito. La pittura deve essere piena di figure per essere mitica. Perchè il mito cosa rappresenta? Il mito rappresenta sempre quella lingua poietica , la lingua delle origini. Il mito ripropone l’aurora del mondo. Tutti i miti si rivolgono alle origini. Le fatiche di Ercole, il mito di Teseo, il mito di Sigfrido, Gilgamesh si rivolgono a qualche cosa che è fondamentale, che è radicale. L’istanza centrale dell’uomo, la sua ragion d’essere, il perché esiste.
U. Entità : Creatività ed immaginazione, viluppo tra presente e mito, sguardi ieratici e maschere vuote, come se l’essenza dell’uomo fosse la maschera…
A. Abate : Il problema della maschera è il problema centrale. Hai individuato uno dei problemi più legati al mio mondo. In effetti, la maschera è l’attributo per eccellenza dell’arte. La maschera è la possibilità che ha l’uomo di trascendere se stesso, di incontrare, senza essere riconosciuto, signori o potenze che stanno dall’altra parte e poter entrare quindi in contatto con loro. Ti indico brevemente due miti. Il mito di Atteone. Atteone è un cacciatore che viaggia per l’Ellade e incontra Artemide. Atteone vede Artemide e si presenta così com’è. Allora la dea lo punisce perché si presenta come Atteone e lo rispedisce tra la muta dei suoi cani trasformato in cervo. Quì, la maschera viene rovesciata. Atteone nel mondo dei vivi viene mascherato da cervo perché si presenta nel mondo dei morti da vivo, senza la maschera, cioè col suo vero volto. Questa è una infrazione rituale, un sacrilegio. La dea della notte, la Signora della Notte lo punisce. Un altro eroe, invece, che copre il volto con la maschera e penetra  nel regno del negativo e ne riemerge vivo, è Perseo. Perseo ha altre forme di mascheramento, il mantello che lo rende invisibile, il cappello, lo specchio di Minerva; per cui, può entrare in contatto con le forze del negativo, dominarle senza contaminarsi, per utilizzare questo potere per trasmettere la vita nel mondo. Questo mito della maschera, dell’eroe che entra nell’altro mondo è un mito che si presenta molte volte nelle saghe e leggende delle più svariate tradizioni. L’artista, in effetti, è, in questo senso, sciamano che utilizza l’artificio, quindi la maschera, per poter penetrare, entrare in contatto con quell’altro mondo.
U. Entità : La tua sembra una pittura che pare negare tutte le correnti dell’arte moderna. Una pittura che, lungi dal proiettarsi al di là della nostra epoca, sembra si introietti in un passato di mostri alati.
A. Abate : Sì è vero. In effetti, io credo che l’arte, come la viviamo, come la vive la modernità, che la presuppone come un fenomeno progressivo, sia una finzione. Non solo una finzione, anzi, ma una delle più grossolane mistificazioni del mondo moderno. In effetti, l’arte, di per se, nella sua definizione più pura, appartiene a quelle cose che sono eterne e immutabili. L’arte attiene all’immutabile, all’eterno. L’arte che si presuppone figlia del cambiamento è un’arte assolutamente risibile, un’arte priva di verità. L’arte, volendo conoscere, volendo incontrare quei poteri, quelle energie, esserne in contatto, essere la visione aurorale del mondo, non può che rivolgersi alle origini. Come diceva De Chirico, l’arte non può essere originale, semmai deve essere “originaria”, quindi capovolgere, rovesciare. Tutta l’arte futurista si fonda sulla condizione funeraria del futuro. Se c’è una cosa che non esiste e che non esisterà mai, è il futuro. Il futuro, nel momento in cui avviene, non c’è. Se c’è una cosa, invece, che è sempre esistita  questa è il passato. Il meccanismo, la spinta verso il futuro che ha tutta l’arte moderna  è la spinta della morte, ed è anche la spinta che agisce all’interno del meccanismo della moda. Non solo. Perché sono forme che debbono morire per farne nascere una nuova, continuamente. Ma la ragione, voglio dire, non è una ragione innocente. La ragione di fondo è che questa progressione di morte continua produce non l’opera d’arte, ma produce nuove merci. E avviene perché dietro questa necessità c’è la sollecitazione  di un mercato che ha bisogno di merci nuove, che esaurisce, ritiene obsoleta una forma e ne richiede una nuova. Ma l’elemento radicale, la spinta, sta nel codice di morte che c’è in questo percorso verso il futuro. D’altronde, la morte si nasconde nel futuro di ognuno di noi.
U. Entità : E’ come se, avendo percorso per intero il periplo delle correnti dell’arte, la stessa fosse tornata al punto di partenza, per soffermarsi nell’era del mito, in cui sono nascoste le radici di tutte le civiltà.
A. Abate : E’ un po’ quello che ho detto prima, quando parlavo dei cattivi maestri. Da ragazzo sono stato sicuramente affascinato dall’arte contemporanea, dall’avanguardia, fintantoché non sono rientrato in contatto con questa cosa che è, invece, l’elemento alchemico fondamentale ed è la materia della pittura, il colore. Il colore cos’altro è, se non luce incarnata? Solo attraverso la trasmutazione del colore può avvenire la trasfigurazione all’interno del quadro. E quindi, trasfigurazione è l’apparizione del mito.
U. Entità : Specchio, enigma, verità, “perversione della rappresentazione”, come ha scritto Elio Grazioli, “enigma del limite...Il rifiuto del formalismo e della forma a favore della immagine e della pittura    enigmatiche”. Sei  d’accordo?
A. Abate : Sì certamente, la pittura deve avere, deve portare, deve essere la forma di un enigma.  Deve essere un enigma per il pittore che la dipinge, deve essere un enigma per l’osservatore che la guarda. La pittura deve portarci in un altrove, deve portarci in un altro mondo, deve rapirci, deve liberarci dal quotidiano e introdurci in qualcos’altro che non è quotidiano. La problematica del quotidiano è una problematica dell’arte contemporanea. E’ quella che vuole continuamente ricondurci al quotidiano, crocifiggerci nel quotidiano. La pittura è questa rottura, questo specchio, questo enigma, che, nel momento in cui lo affronti poni la questione, come il cavaliere del Graal. Devi solo porre la questione. Nel momento in cui poni la questione, entri in contatto con le energie viventi, con la natura vivente.
U. Entità : Efebi mascherati, narcisismo che concretizza il proprio doppio non in un’immagine riflessa, ma in un doppio reale…  
A. Abate : Sì, il problema del doppio è relativo al rapporto con la maschera, con la propria ombra, con la propria anima, il rapporto con il superamento, anche, del proprio limite corporeo. Io credo, ad esempio, che attenga anche ad una forma di trasmutazione fisiologica. L’artista è, in effetti, colui che possiede una mano, una mano pensante, per cui arte, arto. E’ questo arto, questa mano è suscitatrice, evocatrice di fantasmi, di doppi. Ma il doppio è, come dire, il contenitore di tutte queste immagini. Il doppio è quello che ti permette di penetrare, di coabitare con quello che Henry Corbin chiama il mundus imaginalis. Quindi, vivere, poter vivere in un altro territorio.
U. Entità : Nella tematica del doppio c’è anche una spiegazione filogenetica, direi anche ontogenetica, perché, in realtà, siamo fatti di due metà, due metà antimeriche, come diceva il noto anatomista fiorentino Lorenzo Bianchi. Ma c’è di più. Nel corpo, anche quegli organi che sembrano essere singoli provengono embriologicamente da due differenti abbozzi che si sono poi uniti e saldati. Mi riferisco all’osso frontale, a quello occipitale, allo sterno, alla mandibola. Ma anche al naso, al bacino, che si unisce nella sinfisi pubica. Inoltre, se un ovulo fecondato si divide in due o ciò viene provocato artificialmente, si hanno due gemelli identici.
A. Abate : Io ti racconto una cosa molto interessante, che conferma ciò che dici. Un mio amico, nel corso di una performance, presentò un lavoro stupefacente. Fotografò il suo volto e poi rovesciò la destra con la sinistra. Venne fuori un particolare sconcertante. Lui aveva due fratelli, uno barbone, pazzo, fuori dal mondo e l’altro il massimo del modello borghese, un bancario. Ebbene, rovesciando queste due parti sono venuti fuori i due fratelli, che in lui si erano sintetizzati e assimilati.
U. Entità : La tua pittura sembra percorrere un  viaggio dantesco in epoche remote e che tu, viandante della “selva oscura”, ti faccia accompagnare da un poeta mascherato che è il tuo doppio nelle sue innumeri sfaccettature. Quanto ciò è prossimo alla realtà della tua opera?
A. Abate : Io sono sorpreso, perché dici cose importanti. Le cose che hai sinora detto sono di grandissima pertinenza.  Dante è sempre stato uno dei grandi modelli. Dante è sicuramente stato uno dei poeti che ho amato di più, ma Dante è un grande iniziato, se pensiamo che il suo viaggio, lo sprofondamento nell’abisso è il percorso iniziatico che compie e deve compiere l’artista e il rapporto con Virgilio è il rapporto con la tradizione primordiale. Quindi è il superamento delle forme temporali, storiche. Dante vive nella Firenze del Trecento; però, nel momento in cui il suo accompagnatore, il suo maestro, il suo doppio, la sua guida, è Virgilio – almeno negli Inferi, perché, come sappiamo, le guide cambiano fino a Bernardo di Chiaravalle, che chiude il percorso iniziatico di Dante…Bernardo è il maestro dell’iniziazione, è colui che lo potrà condurre di fronte al punto primordiale, alla visione del tutto, dove egli non si muoverà più come gli uomini, ma si muoverà levitando come gli angeli. Nell’ultima cantica c’è questo movimento di Dante attorno al tutto, cioè, intorno al punto primordiale. Che è poi il Dio di tutti, che vive in tutte le tradizioni, come il Dio nascosto. Quindi, l’eventualità storica, la Firenze trecentesca, non è altro che metafora e simbolo che il poeta utilizza per pervenire alla visione totalizzante, a quel “soggetto integrale”che in tutte le tradizioni è la numinosità.
U. Entità : Il taglio moderno dei corpi aneroici, cioè non eroici, conferma l’essere le tue figure personaggi del mondo di oggi che percorrono un itinerario fantastico, una immersione nel mito ricreato che è, però, il mondo della psiche. E’ come se tu stesso continuassi a vivere in quel mondo a scopo catartico. Quasi una autoanalisi. Quanto è gioco d’artista e quanto reale bisogno di introspezione?
A.Abate : Stavolta mi trovi d’accodo solo in parte, perché non sono un appassionato di psicoanalisi. Io ritengo che l’artista, al contrario dell’analista che ascolta il logos dell’altro, l’artista compia  un’operazione di introiezione del logos. Cioè, introietta la parola e questa parola si trasforma in qualcos’altro, lievita e si trasforma in altro. Questo perché è il corpo stesso dell’artista che subisce una trasmutazione. C’è una definizione di Nietzsche che mi piace ricordare, che dice che il virtuoso come il saggio lo sono perché il corpo è saggio e virtuoso, non perché lo è la parola. Quando dice che il bene è solo una parola, vuol dire che il bene è insignificante se non è vissuto nella carne e nel corpo.
U. Entità : Scenari come luoghi non luoghi, volti statici, compositi, talora senza drammi e senza voce, un grande silenzio di posa. Perfino la lira non è sfiorata dalle dita e non dà suoni, perfino i serpenti sembrano voler fare posa di mordere. Quanto nella tua pittura è memoria del mito, ricordo letterario, gnosi del tempo, e quanto è creazione fantastico-scenica?
A. Abate : Ti riferisci a un mio quadro, dove avviene  una danza, attraverso il silenzio. C’è un danzatore che danza al suono di strumenti che sono suonati da statue. Ma la statua non può suonare, quindi, il danzatore danza al suono del silenzio.
U. Entità : Lire e altri strumenti, a volte, sono sfiorati da dita statiche.
A. Abate : Sì. In quel quadro questa condizione viene portata all’estremo. Volevo dire è che la pittura è la trasmissione di un messaggio silente, è la visibilità del vuoto. Quindi, tacendo, è l’assoluto silenzio che parla. C’è una definizione cinese del Tao e dice che il Tao è un silenzio assordante come il tuono. Quindi, ripeto, questo silenzio è un silenzio fortemente significativo. E’ un silenzio fortemente loquace. Il silenzio inabitato della comunicazione totale. Il silenzio è parola. Il silenzio è la parola dell’immagine. Quindi, quando metto una lira o una cetra, o qualunque altro strumento musicale, questo strumento non può suonare, intanto perché non potrà mai suonare perché la pittura non suona, e quindi è già una antinomia a priori. Poi, molte volte, sono le statue che suonano. Quindi, è un meccanismo en abime, è in abisso che funziona la cosa. C’è una negazione e c’è un’altra negazione. La pittura è negazione del suono. La statua che vive nella pittura è emblema di questa negazione del suono, che raddoppia la negazione. Questo processo è come nelle scatole cinesi, si incastrano l’una nell’altra. E’ la forma di un enigma, che si presenta nel quadro.
U. Entità : C’è qualcosa, nella tua opera, che mi ricorda Nietzsche, allorquando Zarathustra si guarda nello specchio del fanciullo e ne inorridisce perché non vede se stesso, ma il ceffo e il ghigno di un demonio.
A. Abate : Certo, perché vede la polisemia dell’io, si vede senza maschera. La maschera  non lo protegge. Il fanciullo è innocenza, mentre lui porta tutti i volti del mondo. Il demonio, invece, è il moltiplicatore, al contrario del simbolo che è unificatore. La potenza demoniaca appartiene alla modernità. C’è un grande scrittore del nostro secolo, che, forse, più di tutti è riuscito a darci queste immagini demoniache. Parlo di Pessoa, il quale scrive utilizzando vari nomi. Cioè maschera, elabora questo disperdimento di un io fino a farlo sparire. Come nella notte di Valpurga, dove tutte le maschere dell’io si srotolano l’una dall’altra passando dall’unità fittizia dell’io alla molteplicità dei caratteri per poi ricongiungersi all’unità veritativa.
U. Entità : Cosa significa, per te, essere artista nel mondo moderno e quali sono i fili che legano l’artista alla società, se credi che ve ne siano?
A. Abate : L’artista nel mondo moderno, almeno l’artista tradizionale, rappresenta sicuramente un fenomeno in via di estinzione. E proprio perché è un fenomeno in via di estinzione, un fenomeno, un ecosistema non più così facilmente riproducibile, rappresenta e ha un grande significato addirittura sociale. Paradossalmente, adesso dico una cosa che sembra in contraddizione con quanto detto prima, perché egli rappresenta e può rappresentare all’interno della società, una condizione assolutamente altra e diversa. Ha ancora una funzione sciamanica, entrare in contatto col regno dei morti. E’ sempre questo medium, questo ponte tra il reale e l’immaginario.
U. Entità : Puoi dire del tuo essere artista qualcosa che ti sembra non sia stato detto dalla critica?
A. Abate : La critica è una lunga parola infinita. Il chiacchiericcio intorno a un oggetto. Probabilmente, la critica ha detto molto di più e probabilmente, molto di meno. Io penso che in qualche modo disegni sufficientemente il mio lavoro. Gli uffici della critica sono gli uffici di sovrapposizione e anche di sostituzione. In effetti, di fronte a un’opera d’arte, al quadro, l’azione della critica può vivere solo in un modo, o opera in maniera coerente, cioè cerca di penetrare all’interno del testo, di disgelare il codice segreto, di stabilire attraverso questo contatto se dentro l’opera d’arte esista questa tavola custodita, come direbbe il Corano, oppure no. La critica, chiaramente parliamo della critica moderna,  si sostituisce totalmente all’opera d’arte, si sovrappone. Non compie un’opera di ermeneutica, ma sposta l’opera e al posto di essa sostituisce il verbo scritto. Questo è avvenuto soprattutto per l’arte di avanguardia, l’arte contemporanea, l’arte concettuale, dove non c’era più l’opera e al posto dell’opera c’era il discorso critico. Più l’opera d’arte è assente, più la critica è presente.




U. Entità : Grazie a nome dei nostri lettori.