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UGO ENTITA' - ACROCORO - copertina di SEBASTIANO MILLUZZO - presentazione di TERESIO ZANINETTI

 

 

 

Ugo Entità - ACROCORO poesie

per i tipi di Rosso&Nero Edizioni

pag. 84 - 1995

 

Presentazione di TERESIO ZANINETTI

 

       Questa raccolta di versi di Ugo Entità, è fra le non molte che, in questi ultimi anni, mi abbia stimolato ad una lettura attenta e partecipe. Vive di forza autoctona ed è spinta da una ragione di fondo: puntualizzare la situazione / condizione in cui l’umanità è oggi impaniata, vittima e artefice di un sistema socio-economico che ne strumentalizza persino i fini con l’induzione e la coazione subliminale, oltre a svilire l’individuo di quel senso della collettività e della comunitarietà che gli sono proprî. La caratterizzazione principale di questa puntualizzazione avviene tramite un susseguirsi di immagini che paiono estorte da un grido trattenuto, ma ugualmente stigmatizzante, che vibra e macera il reale con una inconsueta e drastica misura.

Il tempo dell’età capitalistica è qui posto di fronte ai raggi infrarossi e ben poco lascia alla possibilità di speranza, sebbene l’autore non cessi di pungolare l’uomo, prima ancora che il lettore, verso una presa di consapevolezza tale da permettere di poter credere in un futuro non più animalesco, bensì destinato a risolvere tutti quei conflitti che ora impediscono un «avvento» autenticamente umano.

       Entità è un poeta che usa le parole e le immagini con sapiente e calibrata disinvoltura, non priva, talora, di quegli slanci necessari per intridere con sentimento e grazia, oltre che volontà propulsiva, la scansione ritmica di un verso incisivo e tagliente; consapevole, certo, che soltanto con la pienezza di tutto se stesso l’uomo può essere in grado di riscattare quell’ onta di preistorico habitat che lo occlude ed ingabbia dentro una realtà i cui connotati sono quelli di una prigione – incastonata tra le pareti insulse e barbare di Stato, Proprietà privata, Famiglia – che nulla concede ai proprî carcerati, se non di consumare a beneficio di chi, detenendo il potere economico, gestisce anche la coscienza (od incoscienza) della classe oppressa. Si leggono, queste poesie, con un forte senso di angosciosa amarezza, che molto dev’essere vicina a quella provata da Lenin quando parlò della stupenda musica che certi autori riuscivano a costruire e realizzare pur nell’inferno in cui tutti erano costretti a vivere.       

       Indubbiamente, Entità  ha tutte le caratteristiche per non lasciarsi accostare a «maestri», illustri o meno illustri; ma non è discutibile che egli conosca a fondo quanto non vi è ancora di realizzato, nell’habitat riservato, spesso coartatamente, all’uomo. Pregnante di desiderio di futuro e non di spazi chiusi, di botole che stringono affetti e sentimenti in una delittuosa moltitudine di falsità, di menzogne, di ipocrisie, la sua poesia lancia ripetuti appelli alla capacità di liberare «nuove prospettive» e, con esse, nuove energie, finalmente recuperate dallo stato comatoso in cui erano incastrate, così che possano estrinsecarsi in totale armonia con la natura e il bisogno reale degli individui, proiettati e fraternizzati in una coralità ed univocità di scopi e di ragioni. Nulla è da perdersi, nel frattempo, nell’attesa di quel divenire che si staglia al di sopra dell’oscurantismo di questo aberrante momento storico.

       Entità è un cantore del divenire, della possibile rinascita dell’uomo dalle proprie ceneri e ciò lo rende testimone vitale di una tutt’altro che impossibile «resurrezione» degli spiriti e dei corpi, entrambi martoriati dalla cieca ingordigia del profitto e dello sfruttamento.

       Acrocoro è un canto dispiegato, ardente, il cui verso si protende al di là dell’apparenza e sopra ogni dolore, ogni apparente sconfitta, proprio perché incita a «vincere» con la forza dell’intelligenza  e non con la brutalità dell’aggiogamento e delle armi, retaggio dell’incultura e dell’ignoranza coatta. Che i lettori sappiano gustarlo con l’amore dovuto.

 

TERESIO ZANINETTI



LA POESIA DI UGO ENTITÀ di  FRANCO SPENA - articolo in “LIBERTANDO”

 

       Ci si immerge nella lettura dei testi e ci si accorge  di vivere, di praticare uno spazio metafisico nel quale si è compresi e nel quale ogni tentativo di orientamento è un tentativo di conoscenza. Ci si accorge dunque di praticare un viaggio in una zona di mezzo senza sud e senza nord; ci si rende conto soprattutto del fatto che probabilmente la stessa zona non esiste, perché il viaggio diviene pratica tragica e meravigliosa di altezze e precipizi, voli e cadute, salti in un etere che è buio e anche luce per fare  dei termini dello smarrimento il vocabolario per conoscersi, per costruire i termini della vita, per coordinare i termini del vivere.

       Il viaggio - se di questo termine si può fare, tra virgolette, una metafora della poesia di Ugo Entità - diviene allora occasione per elaborare termini di orientamento, all’interno di uno spazio metafisico che tuttavia contiene origine e fine - quello delle parole quantomeno - un principio e una fine che comunque comprende la poesia, ma anche il poeta. E che dunque ci contiene, che forse ci appartiene, sospesi tra poli magnetici discontinui che continuamente ci attraggono e ci allontanano.

       Per questo sembra che Entità instauri un rapporto insistente tra interno ed esterno, praticando l’evento di entrare e di uscire da se stesso, un se stesso che diviene quasi una zona del sacro nella quale il poeta intesse le parole che di lui dicono, le parole che lo pronunciano, nelle quali riconoscersi, e che divengono segni per connotare il luogo e lo spazio del suo essere o non essere nel tempo, ma anche per cogliere rotte di salvezza e, perché no, anche di fuga astrale.

       In questo senso Entità si inserisce nella migliore tradizione della Poesia del Novecento che eredita dalla cultura occidentale la magica nozione del viaggio. Il viaggio che è segno di avventura, ma anche di riconoscimento della grandezza dell’uomo.

Così il “camminarsi dentro” del poeta è un eremitare, un peregrinare sotterraneo, un percorrere vie interiori a caccia di “regni” per cogliere il senso della terra e della carne, per riconoscerci déi e creatori del proprio cammino ( Siamo, ibidem).

E si coglie il senso di una sofferenza che è consapevolezza di destino e, nello stesso tempo proiezione di un evento che si compie ad ogni passo che è compimento di una vita che non è mai l’ultima (Guerriero, ibidem).

       Entità non viaggia dunque per partire, come direbbe Baudelaire e neppure per tornare come vorrebbe Emerson, ma la partenza e il ritorno sono la condizione dannata nella quale si circoscrivono le ellissi della vita, nella quale si svolge o si sconvolge l’esistere, comunque, lanciati come comete - e si coglie un senso di lirica dolcezza – coinvolti ad orbitare mentre scriviamo la storia “ della nostra presenza

 ( Della nostra presenza, ibidem).

 

       La parola ha una sua fluidità compassata ed è  il risultato di una meditazione profonda, di una gravità che la isola quasi nella struttura del verso, ma fluisce nell’espandersi del senso, a determinare quasi inattese coordinazioni nel rapporto tra i significati, nel collegamento che viene a scoprirsi in un sottile e sussurrato gioco di coreferenze, in un primo tempo nascoste, che appaiono poi come una rivelazione.

       Sono luci che emergono e tornano a nascondersi e che connotano quel carattere apparentemente criptico che assume a volte la poesia di Entità, aduso a calibrare spazi, maiuscole e parole quasi elementi di una alchimia preziosa, misteriosa e segreta.

       Si avverte la sensazione di essere quasi alla presenza di un rito bizantino, per il quale il celebrante-poeta entra ed esce dalla stretta porta di una iconostasi al di là della quale avviene l’incontro con la parola che si forma e si rappresenta nella pratica di un esercizio “sacerdotale”. L’uditorio avverte la presenza dell’evento, ma non può contemplarne i segni.

       E’ in questi termini  che si avverte spesso il disegno poetico di Entità, come voce che si presenta e si cela, quasi a velare un paesaggio che scompare per oggetto di abbaglio, per rendere comprensibili i silenzi forse, quei toni di mezzo che determinano tensione e attesa, per mettere in evidenza gli angoli sfumati di luce dove, oltre la vita, “cova la morte” e il mistero ( Finestra, da “Acrocoro” ).

 

 FRANCO SPENA




UGO ENTITA' - LETTURA DI TESTI - ANNO 2005

FOTO SCATTATA DA ANTONELLA BALLACCHINO - ARCHIVIO DI IPPOCRENE - proprietà riservata