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IGNAZIO APOLLONI a SALVATORE FERLITA

 

 

 


Nell'edizione locale di Repubblica del 15 aprile 2011 Marcello Benfante recensisce
il saggio Contro l'espressionismo di Salvatore Ferlita, editore Liguori.
Poiché dissento - temo la riedizione del neorealismo d'antan -
esprimo qui di seguito il mio parere.
Ignazio Apolloni
 
 
----- Original Message -----
From: ignazio apolloni
To: Ferlita Salvatore
Sent: Friday, April 15, 2011 12:43 PM

 
Caro Ferlita
Posizione coraggiosa ma pericolosa, la tua, perché la fantasia non vi trova posto; la mediocrità (allora denunciata dalla neoavanguardia; e presi a simbolo di una forma di neoborghesia letteraria Cassola e Bassani) è tradizionalmente espressione del tipico provincialismo italiano: non a caso i nostri autori sono stati sempre poco tradotti all'estero. Per non dire della monumentalità di un Tolstoj o un Proust che non ha l'eguale nella narrativa italiana se non forse nei Promessi Sposi: con la carica di spiritualità da chierichetto che contraddistinse il Manzoni.
Quanto poi all'asciutezza di uno Sciascia o ridondanza di un Pizzuto vanno visti entrambi come pauperismo perché si incuneano, al livello più basso, verso una comprensione intelleggibile del testo che lascia la bocca asciutta all'esito della lettura: con una espressione che suona "e con questo"?
Quale l'arricchimento estetico, la problematica esistenziale, lo psicologismo aneddotico, la rappresentazione grafica della Storia umana (non quindi quella personale dei singoli autori, mai troppo significativa, nel panorama librario vecchio e nuovo se non attingendo - e certamente mi duole - alla narrativa straniera?
Colpa di un'Italia, soltanto bellicosa durante il fascismo; codina e succube del potere temporale ed ecclesiastico della Chiesa cattolica; alla scoperta del mondo attraverso il colonialismo: senza mai essere riuscita a produrre le opere di un Kipling.
E' tutta una questione di miopia quella che fa guardare gli scrittori italiani dal buco di casa propria e all'interno di essa: mai troppo allontanandosi per paura del baratro, di fondali troppo alti.
Anche meglio se si può guardare al mondo da un bunker o in rifugio protetto a vista dalla tradizione e dal proprio dialetto.
Con il che si chiude il cerchio e si finisce con il ripetersi fino alla noia.


Ignazio