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LUIGI RABITO - TESTO DI ANDREA GUASTELLA

 

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Come il registratore, un’istantanea non può, in linea di massima, mentire né discriminare: a contare è l’autorità dell’immagine, o della sua riproduzione. Questi, e solo questi, sono i luoghi inquadrati, questi gli oggetti, queste le persone. E allora, disponendo di una testimonianza fotografica di un uomo, come resistere alla tentazione di partire da essa nel definire il suo lavoro? C’è, tanto per capirci, una foto di Luigi Rabbito che lo ritrae seduto in studio coi suoi colori, i suoi pennelli e una menorah, il candelabro a sette bracci degli ebrei. Rabbito appartiene forse al popolo eletto, come sembra suggerire il suo cognome, o la sua è piuttosto la provocazione di chi si sente fratello degli umiliati e degli oppressi, quali gli ebrei sono stati per millenni? A giudicare da uno dei suoi ultimi dipinti, dove l’artista afferma a chiare lettere “Io sono tibetano”, la risposta esatta sembrerebbe la seconda. Una risposta motivata, tra l’altro, dalla consapevolezza di vivere in un luogo dimenticato da Dio come l’estremo Sud della Sicilia e di dedicarsi a un’arte discriminata come la pittura; consapevolezza che è anche il vanto, l’orgoglio professionale di chi sa fare il suo mestiere e intende dimostrarlo, sicché i bracci del candelabro sono il perfetto equivalente delle braccia di Rabbito, dei suoi pennelli e colori: strumenti prometeici, pronti a diffondere il fuoco sulla terra. Di fatto, lo sguardo e la mano dell’artista non riposano mai; una tensione a lungo repressa esplode sempre, travolgendo come una scossa tellurica l’impianto dei suoi quadri. Ciò emerge pienamente nei primi lavori, impasti informali corrugati e rappresi come le pieghe di un vestito, di solito monocromi, rigati talora da una scia di diverso colore che si allunga come un fascio di luce in uno scatto notturno. Qui il tormento è affidato all’ombra cupa che si addensa nelle valli, nei crateri di paesaggi lunari abbozzati con densissime pennellate di vernice. Segue una fase di studio, dove la scabbia della pittura contagia spazi e individui familiari all’artista, in un incrocio doloroso e impossibile di astrattismo materico e intensità figurativa. Infine, nei lavori più recenti – trattori, rulli, camion, automobili in fila, escavatori – l’impatto emotivo andrà cercato, oltre che nella solita materia, solo un po’ meno frastagliata e grumosa, nelle innumerevoli linee che la attraversano, la scalfiscono, la incidono. La furia dell’artista si è fatta più sottile; prima era lava lenta e travolgente, ora è saetta veloce e corrosiva come i collage, gli ironici inserti di giornale che si affacciano qua e là tra una molla e un pistone. Le macchine da lavoro o le automobili che usiamo per spostarci partecipano, sembra dirci Rabbito, della nostra follia. Azioniamo quel mostro di ruspa: ci si rivolterà contro. Proviamo ad abbandonare quell’ingorgo e ne saremo risucchiati. In questa visione apocalittica, da profeta dell’Antico Testamento, l’energia distruttiva di Rabbito trova finalmente un degno scopo. Noi non sappiamo, tornando al principio, se il cognome dell’artista derivi dai rabbini; è certo, però, che coi rabbini ha in comune la rabbia, una giusta, sacrosanta indignazione nel denunciare i crimini della nostra società.  

Andrea Guastella

 
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