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EMANUELE GIUFFRIDA - TESTO DI ANDREA GUASTELLA

 

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Emanuele Giuffrida


Un uccellino era sempre vissuto in gabbia, nella cucina di un’anziana signora. Il suo tempo era trascorso sempre uguale, senza i rumori della strada, senza il tepore del sole, senza i profumi e i colori dei fiori. La cucina, col suo aroma di cibo e di stoviglie usate, era tutto il suo mondo; dall’alto della gabbia, l’uccellino ne conosceva ogni dettaglio, dal più lustro al più riposto. Un giorno, dopo aver cambiato come al solito l’acqua all’uccellino, l’anziana signora sentì squillare il telefono e corse nella stanza accanto, lasciando aperta la porticina della gabbia. Le ali dell’uccellino non sapevano volare, ma le sue zampe saltavano che era un piacere; in pochi istanti l’uccellino balzò sul davanzale, verso la libertà. Lì fuori il cielo era buio, il vento soffiava furioso, le stelle brillavano fitte. Impaurito, l’uccellino tornò alla sua gabbia, come niente fosse stato. Ma niente fu più come prima. Il muro della stanza aveva perduto l’aspetto di tovaglia cosparsa di allegre macchioline; era diventato buco nero, specchio oscuro, mare denso su cui gli oggetti galleggiavano come sul petrolio; la lavatrice aveva smesso di cantare, il frigorifero non replicava i riflessi della finestra di fronte e della piccola tv. È stato un bene, per Emanuele Giuffrida, abbandonare spavaldo la gabbia della vita? Di certo, se non l’avesse fatto, la sua pittura sarebbe rimasta ancorata alla scorza, alla nitida apparenza delle cose e non avrebbe affondato il coltello nelle contraddizioni del reale. Affondatolo per subito ritrarlo, come si conviene a ogni finzione. Ma quel tanto che basta per colmare il nostro sguardo di incertezza e stupore, di sgomento e sincera ammirazione.

Andrea Guastella

 
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