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FRANCO CILIA - INSTALLAZIONE SULLA "TIMPA" DI RAGUSA - TESTO DI ANDREA GUASTELLA

 

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C’è una montagna accanto alla città, una montagna antica, che sembra riposi dall’eternità. I suoi rilievi, morbidi e ondulati, sono interrotti da una valle profonda, che la sospinge lontano. E la città le ha voltato le spalle. Non una piazza, non una passeggiata si affacciano a guardarla; solo una rotonda belvedere da cui, la sera, si intravede minuscolo il duomo di San Giorgio, agghindato di lumi neanche fosse il ponte di una nave. Tutto intorno le luci fioche di Ragusa riverberano sui fianchi del monte una stanca marea, rimescolando al risucchio la battigia cosparsa di detriti: qualche carrubo nodoso, un muro a secco costruito chissà come sull’orlo del dirupo, vaste pareti solcate di rughe e vaiolate di crateri come la fronte di un vecchio. In questo specchio di luna, isolato dal buio del cielo e dalle tenebre assiepate a fondovalle, uno sperone rossiccio si erge maestoso. Se solo potesse parlare, ci racconterebbe di quando un fiume navigabile percorreva la vallata, del transito di eserciti venuti da lontano o degli abusi edilizi – una della violenze più nefaste, per la lunghissima durata degli effetti – perpetrati edificando casermoni di cemento sul colle cui è aggrappata la città. Ancora, sottovoce, potrebbe raccontarci dei vani tentativi di scalarlo come vuole la leggenda sul dorso di una mula, per scovare, nel cuore della roccia, il tesoro che nasconde. Di ciò, almeno, erano persuasi i nostri padri, che avevano con l’enorme dentone una grande confidenza. “A Timpa ro nannu” lo chiamavano, un nome degno di un terreno di famiglia. E come una proprietà comune, da tramandare di generazione in generazione, lo ha sempre inteso Franco Cilia, che da tempo usa lo sperone quale scenario dei suoi quadri, ambientando ai suoi piedi l’eterna vicenda dell’uomo. Non che Franco non abbia preso, saggiamente, le sue precauzioni. Prima di confrontarsi col gigante, ha pensato bene di ingraziarsi i suoi fratelli più piccoli, quelle pietre antropomorfe sulla cui pelle macchiata di muschio gli elementi si sono sbizzarriti a plasmare le fattezze di grotteschi mascheroni, tanto realistici che quando, nei primi anni Settanta, Franco espose queste sue sculture nei Giardini Iblei, un vecchietto a passeggio non poté fare a meno di esclamare: “lo dicevo io, che erano cristiani”. Già, cristiani: uomini e donne in carne ed ossa, con nelle vene il nostro stesso sangue. Forte di questa scienza nuova, nel Settantasei Franco ha infine provato a impossessarsi del tesoro incassato nella roccia. Avrebbe dovuto percorrere la Timpa in groppa ad un quadrupede, ma ha preferito aggredirla dall’alto, illuminandola con dei fasci di luce. Aveva capito, infatti, che il tesoro non era dentro la montagna: era la montagna stessa, il suo profilo di mano che saluta e benedice, il paesaggio incantato che protegge e che rivela. Il miracolo, ahimè, durò una notte sola. Le tenebre inghiottirono di nuovo lo sperone e per altri trent’anni non se ne parlò più. Oggi, grazie al supporto dell’Amministrazione Comunale, lo sperone è tornato a brillare come una torcia nel buio. Accanto ad esso, come per proteggersi dal freddo, delle sagome d’acciaio si sono radunate; ombre di trapassati, alieni discesi dal cielo o i nostri stessi sogni, che lo sperone ha reso prigionieri? Guardiamolo in faccia, con il dovuto rispetto, e forse lo sapremo.

Andrea Guastella

 
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