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IGNAZIO APOLLONI

 

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 Questo romanzo ha pathos ed eros e insieme un forte impatto pittorico. Il Marocco, Parigi e l’Occidente sono lo sfondo non inerte su cui si muovono la protagonista e i suoi uomini, il popolo berbero e quello arabo, civiltà che si scontrano e confrontano.

 

 

                                  da   PRELUDIO


    Stava camminando sul ciglio della strada in terra battuta, come una qualsiasi ragazza del luogo. I sandali si erano subito impolverati ma non provava fastidio. Più procedeva e meno avvertiva la stanchezza del viaggio. Tra poco sarebbe arrivata a casa. L’attendevano sicuramente le solite emozioni, i pianti, la lunga veglia a raccontare quanto era successo in quei sei anni di lontananza.
    Marciava e pensava. Fosse avvenuto subito l’incontro sarebbe esplosa in una narrazione fitta di dettagli. Li aveva trattenuti in mente e messi in ordine quasi dovessero diventare la trama del suo romanzo. Vi aveva aggiunto qualche episodio accaduto ad altri o semplicemente letto. Il costrutto che via via era andata realizzando talvolta le era apparso farraginoso e forse anche pletorico. Sfrondando e incastonando un tantino meglio le tessere si sarebbe ora potuto parlare di un corpus omogeneo di avvenimenti, scenari e dialoghi tali da fare della sua vita più recente un film. Ma non era su questo che avrebbe intrattenuto i suoi. Troppo diversi e divergenti i loro interessi. Stava diventando perciò sempre più ansiosa perché avrebbe voluto dar subito sfogo alla pressione interiore che andava covando. Frattanto le succedeva di notare un qualche fatto insolito come l’attraversamento della strada da parte di una bestia nera o un mulinello di sabbia fine capace di accecarla. In totale stato di simbiosi con la natura si ferma, arretra, si dispone a respirare l’ansimo della sua terra e quindi riprende la marcia con rinnovata vigoria.
    Alla stazione l’offerta dei tassisti era stata insistente. Sarebbero bastati pochi dirham a farle risparmiare la buona mezz’ora da quando s’era messa sulle tracce del proprio passato. Aveva rifiutato. S’imponeva una lenta catarsi. Procedeva quindi con la benefica certezza di un mutamento di stato, di un lento spegnersi delle angosce più recenti e del conseguente sopravvenire della beatitudine attonita in cui aveva trascorso l’adolescenza.
    A sedici anni Fathima (come l’avevano soprannominata) s’era ritrovata con un corpo ben fatto ed elastico. Gli occhi corvini quanto i capelli scuri. Le mani ambrate dalle unghie rosee come rosea era la carne delle labbra. I piedi che calpestano la sabbia senza venirne scalfiti. La pronuncia della erre moscia tale da farla sembrare una franco-marocchina. Un nugolo di maschietti simili a mosche, baffetti spudoratamente esibiti, sguardi maliosi e incantati erano diventati il suo scenario quotidiano. Cercava in tutti i modi di sfuggire all’attrazione; continuava a lavare i panni nel ruscello vicino casa come non ci fossero state altre ragazze o donne a fare le stesse cose. Ascoltava soltanto la melodia di un suo canto interiore che sembrava vocarla a un destino più alto della palma che sovrasta la sua casa, da cui cadono datteri maturi e che la ombrano della sua frescura.
    Giorno dopo giorno, sfuggendo ai richiami imperiosi dell’amore puberale, Farah era andata consolidando una sua dimensione della vita, una visione del mondo simile a quella delle sue coetanee centro-europee. A scuola sui libri, e fuori della scuola sulla stampa straniera, aveva letto la storia di ragazze brillanti, di margini rosicchiati all’oppressione del maschio, di spazi occupati dal pensiero di questi nuovi soggetti. La maternità sembrava essere diventata un complemento dell’esistenza, non tutta l’esistenza. Atterriva dunque in prossimità dell’arrivo del ciclo mestruale temendo che per qualche accidente non dovesse esserci. Non riusciva ancora a rappresentarsi esattamente cosa facesse di una donna una gestante né quale maleficio potesse privarla di una simile gioia.
    Tolte queste apprensioni la sua vita era scorsa lentamente come il tempo che passa tra un’alba e un tramonto listati a lutto perché gravidi di pioggia; o tra una nenia per addormentare un bambino e il momento in cui finalmente prende sonno. Non si prefigurava cosa sarebbe successo il giorno dopo né ammucchiava ricordi e memorie per farne vita vissuta. Avesse dovuto narrare cosa le era successo di rilevante fino a quel momento non avrebbe saputo né da dove cominciare né dove finire. L’unica cosa che sentiva appartenerle era una forma di gelatina in attesa di rapprendersi, di diventare forma.
    Tra le materie studiate, d’istinto, aveva preferito la geografia e il francese. Per strano che possa sembrare un giorno l’insegnante aveva chiesto se qualcuno sapesse dov’era Lisbona. Solo due avevano risposto bene ma nessuna delle due aveva saputo collocare esattamente la città nello spazio. Neanche lei lo aveva saputo fare e se ne era vergognata. Il primo proposito fu quello di recarcisi quando fosse capitato; il secondo fu quello di andare a vedere su una mappa da che parte fosse. Seguì una forte curiosità per la storia di quella città e per tutto il Portogallo ma non andò oltre quel nobile proposito. Le erano e le rimasero indifferenti le sorti dei popoli. Dello stesso Marocco non sapeva né seppe mai più dell’essenziale. Per lei quella entità geografica si identificava fondamentalmente con il colore della sua pelle e le pulsioni del suo sangue. Una delle quali la portava a sentirsi nomade.
    Da quando aveva avuto successo alla scuola superiore in lei erano subentrate delle anomalie, meglio dire delle mutazioni antropologiche. Ai piedi aveva messo prima i sandali e poi le scarpe; sostituito la tunica con la gonna corta e quindi indossato i pantaloni; sempre più scollato il petto e proteso i capezzoli per suscitare desideri che prima avrebbe evitato. Non più cibi crudi ma cotti. I suoi denti ora scintillavano di strofinio da pasta dentifricia, così come le unghie venivano evidenziate dallo smalto. I capelli purtroppo le erano rimasti crespi malgrado i ripetuti trattamenti per renderli lisci. Unico dato nuovo? il fissaggio per impedirne il disordine. All’Air France l’avevano voluta con poco maquillage. La sua naturale bellezza aveva prevalso su tutti i possibili accorgimenti estetici. Negli opuscoli e nelle locandine la sua immagine finì con l’occupare per mesi un posto di riguardo tra tante bionde europee. Frutto anche di un costante mutamento di gusti da parte della clientela.
    Per l’occasione le avevano fatto indossare la nuova divisa. All’azzurro delle altre società l’Air France aveva sostituito e imposto alle assistenti di volo un beige sabbia che poneva in risalto il fascino delle sue ragazze francofone. Un grazioso cappellino completava il tailleur, e lo stemma all’occhiello ne diceva l’appartenenza alla compagnia di bandiera. Erano soprattutto loro a fare della loquacità l’arma vincente nella lotta all’accaparramento dei nuovi flussi di uomini da jet set. Da quando a salire sugli aerei non erano più solo gli uomini d’affari o gli emigranti si erano imposte nuove regole. Il personale anziano agli uffici, quello maschile di supporto alle donne. A sorridere e conversare con i viaggiatori, graziose ragazze dagli occhi a mandorla o dalla pelle colore della notte. Con la variante di quella colore del miele.
    Era convinzione generale che il miele desse sul biondo. In effetti una qualche varietà ne ha le sfumature, specialmente se proviene dal nespolo. L’Africa non ha tale frutto. I suoi fiori - dall’acacia all’agrume, dal gelsomino all’acanto - danno una sostanza che per metabolismo si traduce in un liquido cremoso in tutto simile alle creme di bellezza che si estraggono dalle radiche sahariane. È ovvio che le api non possono farci nulla se non produrlo così come viene. Da ciò l’intuizione giusta dei pubblicitari: vendere la terra del miele, tutt’intera l’Africa maghrebina, a chi ancora sogna un possibile Eden e pur di andarlo a scovare si fa imbottigliare come parte di un cargo dentro la capiente fusoliera di un Boeing dopo avere temporaneamente gettato nella pattumiera ansiolitici e tranquillanti. E perché sia più facile la cattura dell’immaginario di simili individui l’offerta non può prescindere da opuscoli a colori in cui giganteggi la figura di una meticcia o di un’araba.


 

 
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