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MILENA NICOLINI

 

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Lettera di Mary Rizzo

E’ raccolta poetica, in cui la vita con le sue connotazioni affettive ed emotive, con la sua energia e la sua struggenza è divenuta lingua, parola, che batte il suo grido, gesto esemplare di ritorno a sé mediante il ritorno alla madre, all’essenza, a dio. La breve silloge nel suo insieme è un coerente microcosmo carico di realtà e attraversato da una storia interiore, a cui introduce il respiro orizzontale, che sfiora carne, carne di donna, e dio, termini di un’unica polarità: quella di un infinito in-carnato, di una co-azione a ripetere, di un continuo sciogliere e riannodare amore. Un infinito di origine femminile, libero, creativo, non può che porsi nelle forme dell’abbraccio, dell’accoglienza, sì ma anche dello sconfinamento delle ristrettezze dell’esistente. E Milena Nicolini trasferisce tutto ciò graficamente sulla pagina con la parentesi tonda aperta e riaperta più volte, non potendosi mai chiudere, in quanto concavità che cattura ogni risonanza di luce, ogni possibilità nuova di vita. Corpo e anima di matermateria sacra in quell’esclusivo darmi essere / senza niente in cambio, in quel suo continuare a darmi madre/ che la chiamo ospitano ogni arrivo, ogni crescita, ogni caduta, ogni resurrezione e dischiudono il finito all’infinito, nutrendo la vita del mondo. Nella levità e scorrevolezza dei versi – tanto belli in alcuni punti da essere spiazzanti – l’esoerienza del divino viene accolta come misura avuta dalla madre, che trapassa e sfiora abissi e cieli, come volontà di vita e di felicità, come potenza di amore, che è più vera là dove è più viva. Chi legge questa raccolta tocca davvero il senso di un’esistenza, un senso, che preme per essere comunicato attraverso la pluralità mobile di tutte quelle presenze, che increspano e dinamizzano il tessutotestuale.
Fino a costruire  una intersoggettività quasi dialogante, una umanità, i cui accenti sono immersi nell’abisso del corpo e che da quella profondità trascendono la quotidianità minore, dimessa eppure colta da sempre in un’inquadratura intensificata, ulteriore: il marito della zucchina, quella del postino, il ladro della bella…fino ai nuovi barbari, nell’ultima, breve sezione della raccolta. Una poetica della pluralità e della relazionalità, che agisce dall’interno del testo in una lingua sempre rimessa in questione, in un movimento continua di rigenerazione  e di svelamento nella vastità dell’orizzonte interiore. Un’ombra si adagia, talvolta, su ciò che l’amore di figlia in sogno si prepara, lontano dalla luce crescente del mattino: l’attesa notturna di una morte, l’oscurarsi del tremore fino al nodo buio della vera morte, il desiderio di trasmutare assieme a che deve ormai perdersi nel silenzio intatto ed eterno di ciò che finisce. La seconda sezione, prossima ventura, appare, quasi, attraversata dalla esperienza del concluso e del perduto, che cerca conferma nella lingua – quanto sta fuori, più in là, non esiste, …, non la sento mia questa carne passa, …, non c’è che disabituarsi / dalla vita, …, -;  ma per far risuonare quel vuoto, per declinare quel congedo occorre un’interrogazione do fondo tutta nuova sui fili invisibili, che legano le cose e noi a loro. La poesia aiuta a vivere e a morire, se insegna a scorgere un centro – parola, che, ripetuta quattro volte nella sezione, è un preciso segnale topico della raccolta – denudato  e salvo, luogo di ascolto, di dono, di annuncio. Qui il rifulgere puro di una perfezione muta può limitare l’ontologia negativa, privarla di oggetto, di meta, di orizzonte, e vietarle di fermarsi nella scansione del verso, nel suo battito raffrenato e inquieto. Tutto un nodo di significati, allora, affiora nella ricerca di senso intorno all’irriflesso, al transitorio, al prevedibile con le sue verità minuscole, all’imprevedibile con le sue intermittenze spiazzanti, all’inerzia di un andare senza forza di espansione. Ma la ragione potrà mai tessere lucide insorgenze di senso alla ragazza uccisa dall’amante / ai milioni passati dai camini / a mia zia che combatte contro il cancro?  La percezione del dato si trasforma, poi, in parola battente, desiderante, orante nella sezione conversari con dio. Le note musicali, incipit del primo testo, sono figure di pensiero, scaglia di superficie, che pare  voglia introdurre ad una attesa sapienziale, in cui si ricompongano, complice la fluidità del verso divenuto ancora più breve, ombra e luce, solitudine e amore, malinconia e speranza, frammento e canto. Ma il distico finale – creati di me / se non lo sei – con la sua sfida estrema a dio perché si faccia amore, amore di donna, guadagno di libertà mediante l’umiltà, dono in-carnato, in-sanguinato, amore che trasforma e allarga le prospettive, cancella ogni possibile, minima traccia di colloquio scontato e banale, definisce presenza e distanza,chiama la reciprocità creatore e creatura.
Come miracolo supremo e incontaminato irrompono nell’arazzo raffinato del linguaggio di Milena Nicolini lo stupore – quarta sezione – la meraviglia, il trauma di Platone e Aristotele, il ‘ senza perché ‘ delle cose. Essi, irriducibili, bucano la piattezza dei segni r ci sorprendono, perché sono nostri, appartengono alla nostra profondità abissale, sono il nostro ( … ) dono d’uno sguardo / come di dio. Di fronte al libro aperto e silenzioso dei simboli, quale è la natura, si sospendono tutti i pre-concetti filosofici, sociali e personali; allora l’intuizione eidetica coglie l’essenza dei fioricolori o della luce, che ( … ) accende il verde come / sospeso al blu marino. Questa piccola sezione è un evento prezioso, è una epoche dell’inquietudine e della mitologia personale della poeta nella lumeggiante allusione ad una libertà tracciata dalle pennellate naturali dei colori. Tutto appare reale e prossimo, adagiato teneramente sulla miseria del nostro tempo, sul fitto dei nostri sogni, sul nostro treno che viaggia, abbandonando stazioni e recinti. L’io si accresce nell’isotopia figurativa del cielo di luce bianca, con tutta la sua referenza poetica indeterminata e complessa. Al contempo il messaggio della poesia, grazie soprattutto alla rete di interazioni del senso all’interno del verso e alla forza di una parola ‘parlata’, viene comunicato e accolto, qui e ora. Proprio il linguaggio dell’oralità immediata nel sincretismo di sguardo, emozione, parola e nella gestualità fonica, che annulla la distanza tra il permanente e il metamorfico, asseconda l’urgenza della poesia  e lega creatività e vissuto. Ma l’orizzonte è già segnato da un senso dolente per i nuovi barbari che incalzano e ci pietrificano nell’orrore. E se ritornassero i vecchi barbari? Chissà! Forse…barbaro scaccia barbaro! L’ironia ribalta il gioco davvero originale in Milena Nicolini tra le profondità e le superfici delle significazioni, stringendo in un unico legame il desiderio di luce e l’addensarsi dell’incubo. Tutto tenacemente reso nel battito chiaro della poesia.
Natale 2006

                                                                  Con ammirazione

                                                                                                                                      Merys

 
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