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IGNAZIO APOLLONI: PALERMO - RIFLESSIONI SU UN PASSATO REMOTO

 

 


Il ‘68 arrivò a Palermo come l’urlo di una sirena. Come una serie di scosse telluriche ad alta risonanza magnetica. Più veloce e dirompente del saettare della lingua di un serpente a sonagli.
Quelli che erano stati docili o indolenti divennero insolenti e irrispettosi della gerarchia. Lanciarono sul tappeto, sul manto stradale, i propri dadi in segno di sfida. Si sgolarono al grido di abbasso i tabù. Inventarono megafoni ad amplificazione differita. Riuscirono a pizzicare le corde dell’essere più di quanto non avessero fatto Paganini e Chopin con il piano e il violino. Novecento anni circa non erano bastati a sradicare il fatalismo dell’Islam. La sottomissione e la soggezione al patriarca o al padrone; la fuga nei meandri dello spirito laceravano, ancor prima di nascere, la ribellione all’ordine costituito. L’ordine voleva che si facesse la riverenza già al maestro di scuola. Si baciava l’anello o si baciavano le dita di questo o di quello con la stessa naturalezza. Mai nessuno che avesse dato un morso alla mano.
Eppure un giorno sopravvenne il ‘68 a dire basta!
Ero stato a New York e a Los Angeles tra il ‘61 e il ‘65. Avevo sentito alla radio, quasi in diretta, dell’assassinio di Kennedy. Se nel ‘29 era crollata la borsa gettando nella disperazione i piccoli risparmiaori quelle pallottole ora gettavano nello sconforto, nel panico, l’intera nazione americana. Ci fu tuttavia uno scatto di orgoglio. Bianchi e neri, emigrati e meticci, indios e creoli si legarono in un patto. D’un tratto si rinsaldò la coesione frantumata. L’America ritornava ad avere un ruolo primario nella Storia del XX secolo.
Il Sud d’Italia soffriva di ritardi storico-ancestrali. I borboni spagnoli più che quelli francesi; i Savoia più dei vari Massimiliani: i gerarchi dello Stato unitario e fascista alimentavano la sonnolenza con il perpetuare la condizione contadina come espressione ed emblema della cosiddetta Questione Meridionale. Nel più profondo del sud persisteva il latifondo con le sue gabelle. Della Palermo dei Florio era rimasto soltanto il Cantiere Navale con i suoi 5000 schiavi e portatori d’acqua.
Irruppe il ‘68 francese come un maremoto. Onde larghe, possenti, incalzanti. Onde lunghe. Un po’ tutti in questa città si sintonizzarono con Nantes e poi con la Sorbona. Partirono alcuni, con zaini e chitarre. Altri innalzarono la bandiera della libertà. Jan Palach fu assunto a simbolo ed eroe. Si scoperse il gusto di far chiasso, di far tardi. Ma soprattutto quello di far sentire la propria voce.
Mi incaricarono di costituire l’ARCI provinciale. Scopersi d’un tratto aedi come Ignazio Buttitta e cantanti pop come Rosa Balistreri. Li portai a Ustica perché popolassero il silenzio gravido soltanto della voce pensosa di Gramsci che lì aveva sofferto il carcere e l’esilio. Vennero a recitare le loro poesie (o a leggere quelle di poeti più famosi di loro) Nat Scammacca, Pietro Terminelli e Crescenzio Cane. L’isola, un tempo rifugio di pirati, cominciava a conoscere l’entusiasmo per essere parte di un popolo di diseredati in movimento verso la felicità. Mai più si parlò di infelicità in quel mitico ‘68 perchè eravamo tutti ebbri.
Fu un fiorire di gruppi teatrali e di spettacoli underground. Ricordo il Living Theatre con la nostalgia degli anni giovanili. Ricordo altresì la forte influenza che ebbe l’avanguardia polacca nella recitazione o nella gestione del corpo sulla scena. Di quelle esperienze travolgenti e cariche di una simbologia difficile da afferrare, ma che ti afferrava alla gola mozzandoti il fiato, fecero pasto e pane Michele Perriera, Beno Mazzone, Anselmo Calaciura e il primo Salvo Licata. Solo la necessaria sintesi mi impedisce di citare altri, ma farei un torto ad Arturo Grassi o Giovanna Bongiorno se non ne evocassi  l’impegno in quella che si presentò come originale .forma di teatro rivoluzionaria.
Altro discorso per il cinema. Mentre ancora l’azione politica era minoritaria e i gruppi non erano diventati gruppuscoli, introdussi, nel circuito alternativo alla distribuzione commerciale, i film di Esenin o di Fritz Lang (tanto per dirne alcuni). Nessuno, che si sappia, aveva visto La corazzata Potemkin o Metropolis. Fu un successo smisurato la proiezione di questi capolavori: accompagnata da scroscianti battimani. L’indomani un po’ tutti avrebbero voluto fare qualcosa di nuovo per cambiare la Storia.
E la Storia cambiò a dispetto di tutto. Prima nel campo del costume; poi nella cultura; ancora dopo nel modo di intendere la politica.
I comitati di base. Il femminismo. L’autogestione. Un legame forte fra sindacati e partiti (molto prima che la degenerazione trasformasse i primi in cinghia di trasmissione dei secondi) furono termini correnti e pieni di grande valenza sociale. La società andò evolvendo rapidamente verso forme di aggregazione di interessi sempre più prossimi a quelli di stampo europeo, e sempre meno vicini a quelli dei paesi del vicino e Medio Oriente.
La moda dal canto suo slegò i lacci dello stereotipo donna con gonna e maglietta, vestendola di eskimo o jeans, tale e quale un maschiaccio. Si partì sempre più spesso in autostop, e per una forma di difesa ancora necessaria, in coppie. Non passò molto tempo ed a partire furono sempre più spesso ragazze sole o in compagnia di altre donne. Conquistarono comunque, i giovani e le giovani, sempre nuovi primati nelle professioni: con particolare riguardo a quelle artistiche, teatrali, letterarie (e qui non posso non pensare al celeberrimo Porci con le ali della Ravera).
Rinnegare la plus-valenza costituita da una visione e una interpretazione marxistica della storia (come si fa sempre più frequentemente, sia pure con intenti dissacratori o provocatori) non rende giustizia a chi ha voluto trasformare massicciamente e velocemente in “occidentale” il corpus della società palermitana. Con soddisfazione dico che non soltanto sono stati cancellati, nel tempo, dal vocabolario corrente parole come latifondo o come mafia, ma che vi hanno fatto ingresso termini come “tolleranza” verso il diverso e “solidarietà” nei confronti di chi soffre di una delle tante espressioni della miseria o della solitudine. E per questa parte del mondo che ha conosciuto l’ignominia della Santa Inquisizione non è poco.

Ignazio Apolloni

 
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