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IGNAZIO APOLLONI: LETTERA A LEONARDO SCIASCIA

                                                                 A Leonardo Sciascia

                                                                 in occasione della inaugurazione

                                                                 della Fondazione

Egregio maestro


    Questa lettera le sarebbe dovuta arrivare prima che fosse troppo tardi ma mi accorgo solo adesso che non è mai partita. Non so se per una semplice dimenticanza o volutamente. Come che sia oggi che lei è scomparso, non avrebbe avuto più troppo senso perché finirebbero con il dirottarla alla fondazione cui hanno voluto dare il suo nome invece che dedicarla a Fra’ Diego La Matina. Tanto vale dunque che lo faccia io direttamente sia per onorarla e sia per tentare di fare aborrire (dell’orrore che suscita una pena di morte in nome del dissenso – specialmente se quella morte viene data attraverso le fiamme) tutti coloro ai quali è stato dato il privilegio di appartenere alla maggioranza (silenziosa come sempre).
    So bene quanto lei abbia scavato nel marcio, abbia buttato alle ortiche ogni forma di congiura contro la libera espressione del pensiero; e come si sia adoperato per far sapere al mondo in quale misura fosse precipitata l’intelligenza di cui menava, e tuttora mena vanto, quest’isola di Pasqua. Si domanderà se intendo parlare di quel particolare paradiso del Pacifico o di tutt’altra Pasqua fatta di vogliamoci bene e lasciate fare a chi sa il fatto suo. Lei comunque non ha bisogno di spiegazioni perché appunto sa bene a quale fatto, anzi misfatto mi riferisco. Fatto sta che in quest’isola triste, se non trista le cose resteranno né più né meno come sono state trovate dalla sua e dalla mia generazione.
    Dunque mi lasci dire. Sono giunto a Palermo a bordo di un piroscafo che attracca alla Cala. Calate le passerelle siamo tutti a terra, e subito dopo veniamo buttati faccia a terra con l’ingiunzione, peraltro, di tenere ben strette le mani dietro la nuca. Chi è che ci punta gli occhi addosso, e non soltanto quelli? Doganieri, addetti alla dogana, esperti nello scoprire se dentro le valigie ci sia un qualche esplosivo: diciamo un deterrente. Non so come ma io e la mia compagna siamo stati segnalati (siamo cioè sospettati). “Fuori il portafogli! Apra la borsa! Mostri i documenti”! Io, che di documenti ho soltanto le copie di alcuni suoi scritti – fornitimi dal Centro di documentazione per lo studio del pensiero di Sciascia con sede in Racalmuto – non perdo un attimo di tempo, li tiro fuori. Evidentemente i lor signori, sono molto avveduti devo dire, ritengono che quelli siano originali, preziosi originali delle sue opere. Me li strappano di mano. Nello strapparmeli finiscono col fare a pezzetti la carta. Non si arrendono comunque perché raccolgono i cocci e quindi se la danno a gambe levate. Levati che ci fummo da terra scoprimmo che non di doganieri si trattava. Quelli erano dei furfanti belli e buoni.
    Di cosa erano le copie, quei documenti? Quali inimmaginabili elementi di analisi contenevano, gli scritti? Forse lei non lo ricorderà (e come potrebbe oggi); ancor più probabilmente non si riterrebbe di farne dei microchip e conservarli in bacheca. È pur vero che il destinatario delle sue lettere – in risposta a delle suppliche – era nientemeno che l’autore degli Scritti Corsari: lo scandalo vivente, colui che riusciva a scandalizzare con le sue uscite (e facendo uscire dai gangheri) tutta una schiera di benpensanti (ovviamente schierati gli uni dietro gli altri). A ben pensarci però perché scandalizzarsi; perché assumere il cipiglio di chi non ammette che qualcuno sia diverso da lui. Che forse lei non era diverso eppure fu – ed è anche ora – più osannato di un santo? Non mi sorprenderei addirittura se lo facessero santo e così finirebbero le polemiche sul perché Sciascia e non Fra’ Diego La Matina: che pure fu mandato al rogo riuscendo però a perdonare chi lo stava bruciando con il dire semplicemente “Loro, i carnefici dell’Inquisizione, non sanno quello che fanno e perciò vanno perdonati”.
    Vede, caro Sciascia, io non riesco a perdonare né chi usa il tritolo né chi usa il collirio per fare lacrimare gli occhi più del necessario. Non sarà che a forza di assoluzioni dai peccati (e non sempre, mi creda, sono originali) finiremo tutti con il cappio al collo e il piede dentro una fossa? Lei conosce bene la storia della fossa dei serpenti: quella dentro la quale non venivano buttati i renitenti alla leva e le donne adultere bensì chi trasgrediva; chi diceva “io non ho padroni ma solo servi”. La storia insegna, e non soltanto in quel racconto dallo stile dichiaratamente horror, che i padroni sono tali solo se esistono i servi. Ricordo di avere letto un’infinità di opere, e perfino parabole, sull’argomento; niente comunque par suo. Io mi sono nutrito delle sue tirate d’orecchie ai potenti; delle arguzie di cui è intrisa la sua produzione. La ringrazio perciò di essere divenuto il mio paladino. Peccato però che la corrente simbologia colloca le figure più importanti di tale genere in Francia mentre qui non sono rimasti altro che i pupi.


suo Ignazio Apolloni

 
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