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LAWRENCE CARROL - TESTO DI FRANCO SPENA

 

VENEZIA – MUSEO CORRER
 

RAGGELANTI CAMERE DI SILENZIO


Niente è più spiazzante di quando lo spazio espositivo perde la funzione di luogo che accoglie le opere per divenire l’oggetto mistico all’interno del quale gli interventi dell’artista  si mostrano come paragrafi di un grande racconto che si sviluppa per toni intimi che unificano la visione. Nelle sale del Museo Correr, a Venezia, che ospita la mostra di Lawrence Carrol, lo spazio stesso si pone come dimensione estetica all’interno della quale altri spazi concorrono a formare altrettanti luoghi di pensiero e di fascino. Di contemplazione anche.
Anzi è proprio lo spazio che diviene opera che si apre e si sviluppa nelle minimali  installazioni site specific e che porge al visitatore un percorso nel quale si manifestano le voci, i silenzi di una ricerca che in esso trova dimensione e forma. In più, sviluppa al suo interno ulteriori varchi, altri luoghi di meditazione direi, poiché il percorso, oltre a permettere una lettura raccolta delle opere, si appropria dell’identità del luogo per trasformare in opera ogni dimensione delle sale che, nell’assenza di colore finiscono per divenire parte di un contenuto che ne costituisce l’anima.
Le grandi tele che sporgono dalle pareti, per ampie superfici o per sovrapposizioni, come quelle poggiate sul pavimento, quasi superfetazioni di un processo generativo interno, assumono quasi caratteri di altari, di grandi tragiche are nei quali si invera il sacrificio della forma che si mostra nuda, scarna, nella sconvolgete essenzialità che costituisce la sua natura di fondo e che si offre alla lettura, o piuttosto allo stupore, quello che coglie nell’atmosfera metafisica nella quale lo spazio sembra generare se stesso per le vie del silenzio.
Uno spazio che avvolge e contemporaneamente si dilata in un biancore che si avverte come essenza che si espande e permea il luogo che diviene contenitore contenuto, nel quale ogni installazione dimensiona il vedere e diviene altrettanto luogo di fascino e di mistero. Le grandi tele infatti appaiono macerati apparati, quasi altari, davanti ai quali la tela stessa si offre come silenzioso sudario che vela e davanti al quale ogni parola diventa impronunciabile; superficie che metafisicamente apre al suo interno altri spazi di visione, altre scatole, camere di altrettanto silenzio che appartiene a un tempo che non si riesce ad afferrare, a un eterno forse che, nell’assenza di parola, può divenire solo oggetto di contemplazione.
Così le stanze-opera del Museo Correr che Carrol allestisce, si offrono come altrettanti altari di silenzio, una dopo l’altra, bianco nel bianco, nel quale le grandi tele mostrano la loro raggelante essenzialità in un apparente minimalismo di forma percorso come un brivido da tralci e accumuli di fiori secchi e finti che sono struggenti presenze di una realtà che tuttavia non c’è, di una realtà comunque evocata e mantenuta distante, ai margini di uno sguardo dalla cui visione rimane, in ogni caso, esclusa.
Nelle tele di Carrol, avvolte su se stesse, sovrapposte per lacerti, aggettanti come grandi pale, la pigmentazione del bianco contribuisce alla resa di una atmosfera macerata, che lascia affiorare tracce, toni sotterranei, che emergono quasi fossero il frutto di una consunzione interna, forse la testimonianza di un passaggio, un segno lasciato da un sovrapporsi di tempi che tornano ad avvertirsi per effetto di una corrosione. Tracce che tornano alla luce per una mobilità della mano che, nel distribuire il pigmento, sembra mettere in atto un rito che, nella ripetizione del gesto,vuole cogliere , anzi sostanziare un invisibile che, comunque, non si rivela.
La cera che avvolge la superficie raffredda e carica lo sguardo di toni inafferrabili, quasi a costituire una patina, un filtro algido che protegge il mistico mondo nascosto che si avverte o sprofonda nelle scatole che si aprono spesso all’interno dell’opera come finestre inaccessibili, o transiti verso uno spazio oltre che misteriosamente vive oltre l’opera stessa.
Spiazzati da un mistico fuori che blocca la visione, si coglie la perdita di una dimensione che possa orientare il viaggio di interpretazione. Rimane l’impotente incombere di un mistero che, tra interno ed esterno, connota di sacro superfici e spazi che divengono quasi luoghi di meditazione, di riflessione e assenza, davanti ai quali sostare in presenza di una transustazione che non avviene.
Le lettere di metallo, raccolte in un “coppo”di carta, al centro della prima stanza, assumono allora il valore di segni da custodire, da portare con sé nel viaggio, per dire e raccogliere il messaggio eterno di una voce che, man mano che si procede nelle sale, costruisce un racconto arcano di silenzio come suono di dentro che risuona e segna la via che conduce verso un riscatto della parola e della forma che, nella sua minimale essenzialità, viene incontro come espressone di fascino che coinvolge e stupisce. E meraviglia per le grandi scatole che sporgono dalla parete o le superfici che si sviluppano dal pavimento, le scarpe che fioriscono di freddi fiori artificiali imbiancati e consunti, posti a volte anche sulle tele a coprire quasi epitaffi che non si vedono, o a segnare la bellezza di una dimensione diafana che tuttavia non si riesce ad afferrare.
Una bellezza comunque, che barbaglia dalla incerata luminosità della tela e dal gioco delle ombre, dal dire e non dire di una luce, anche, che determina nelle opere ulteriori zone d’ombra o altrettanti spazi di apparizione.
Per dire di una verità che è l’anima delle cose, che illumina e cancella, che tuttavia non si mostra; per dire di uno spazio che si moltiplica nella teoria delle stanze come nello schiudersi delle opere; per dire delle grandi tele di Carrol che divengono luogo di una memoria  che, oltre il tempo, si nasconde e stratifica fra le sovrapposizioni, i graffi, le corrosioni, i rimbocchi delle stoffe. 
Le sale divengono allora quasi degli spazi sacri, all’interno dei quali ogni opera è un’icona che si offre a una mistica del vedere, davanti alla quale soffermarsi per una stazione di riflessione, per uno zero percettivo che sopravviene e si pone come oggetto di meditazione.


FRANCO SPENA   04 07 2008

                                                                                                  
                                                   

 
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