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IGNAZIO APOLLONI: IL PARCO DELL'ARTE , O DELLE MERAVIGLIE

 

IL PARCO DELL’ARTE, O DELLE MERAVIGLIE

 

     Ero stato seduto sugli spalti del Castello Aragonese (molto diverso da quello Sforzesco) con uno strumento in mano che sapeva di telescopio (ma poteva somigliare a un cannocchiale, a ben vedere) con l’intento di colpire al volo, frantumare e triturare – con i vari raggi laser di cui lo avevo dotato –, i pallettoni sparati dai molti cacciatori appostati dietro i cespugli. Era il tempo della caccia aperta. Nessuno però aveva avvertito i vari falchi, pronti – sin dal momento in cui avevano deciso di avventurarsi – ad attraversare lo stretto di Messina provenendo dal Sudafrica. Non è che qui ci stessero male ma nemmeno bene stante la politica dell’apartheid praticata in quel paese. Come che sia al momento giusto (ma qual è il momento giusto?), poco dopo la consultazione generale di tutti i falchi riuniti in assemblea, il capo aveva dato il via: Si parte! Ed eccoli a frotte, a stormi, darsi alla pazza gioia tra trilli e buon viaggio dall’uno all’altro diretti ovviamente verso la Sicilia per quindi superare d’un balzo lo stretto di Messina con la speranza di uscirne indenni.
    Non era la prima volta che una cosa del genere prendeva corpo, succedeva. Mai prima d’ora però ci sarebbe stato uno come me a proteggerli da gente vile, innamorata solo del fucile, della polvere da sparo e dagli spari sia pure a casaccio purché facciano un botto. Quando ebbi a prendere la decisione di cui sto narrando mi trovavo in una bettola all’aperto con degli amici a bere un litrotto e fare una partita a carte (senza scopo di lucro essendo ciò contrario ai nostri principi). Tutt’a un tratto sentiamo un trambusto, sedie che vengono spostate violentemente, gente che si alza e scappa. “Che sarà successo”? fa il mio dirimpettaio. “Che sarà successo”? faccio io. Nient’altro che una fitta colonia di falchi e colombacci; un’intera migrazione prossima a raggiungere le coste della Calabria dove in quel momento noi ci trovavamo per le ragioni più varie ma di cui più oltre forse darò conto.
    Potete immaginare il nostro stupore – ed anche quello di coloro che si erano alzati e corsi all’aperto prima di noi. Non ne avevamo mai visti tanti e in così perfetta formazione: alcuni muniti di scudi, altri di corazze. Cominciammo a salutarli, man mano che ci passavano sopra (ricambiati da un ampio sorriso tra l’ansimare e il gioire per cotanta calorosa accoglienza). Provammo a contarli ma non c’erano numeri che tenessero. Poi, improvvisamente, le bocche di fuoco: Turutun Turutum! Falchi che cadono di qua; colombacci di là; chi trafitto al cuore, chi nel costato, chi con la testa fracassata o un’ala spezzata. Ovviamente mi indigno. Non avendo a portata di mano se non la mia sedia l’afferro e la scaglio contro quel gruppo di masnadieri, ferendone un paio, quelli del cespuglio più vicino a noi. Non mi bastava però perché la carneficina non dava tregua, cioè continuava come niente fosse. Insomma, per farla breve, afferrai più volte alcune bottiglie per il collo e le scagliai come un tempo si era fatto per le bombe a mano (non si dimentichi la mia carriera di fantaccino): procurandomi purtroppo una lussazione al polso, ma chi se ne frega.
    Finita la sparatoria e andati via (tutti contusi quegli assassini di carne avicola) mi ripromisi di tornare sul posto prima di loro l’anno dopo in modo da essere pronto e piazzato. Avrei portato con me un telescopio, vuoi per avvistarli meglio e vuoi munito di effetti speciali (oltre che di effetti dirompenti). Con questi ultimi avrei reso innocui i loro pallettoni facendoli a pallini con i miei raggi laser; con i precedenti li avrei frastornati e fatti scappare: non avendo essi mai visto prima niente di simile né potendone immaginare le conseguenze.
    Ritorno ora al momento iniziale del racconto.
   Sono rimasto, come ho detto, sugli spalti del Castello Aragonese di Reggio Calabria fino a tardi: così frustrando tutti i tentativi di quei poveracci di abbattere i falchi di passaggio lungo lo stretto e da punti diversi ma diretti tutti al nord. Adesso è sera, posso riposarmi (l’occhio e l’orecchio però sempre vigili). Giusto per fare qualcosa di meno noioso che dormire guardo le stelle; loro guardano me; ci guardiamo; loro mi mandano segnali abbastanza eloquenti (che io interpreto di ringraziamento); io li ricambio come posso. Il mare è calmo, sebbene velato di malinconia perché nessuno che lo solchi in questo momento (né traghetti né carrette: quella sorta di navi da trasporto che basta un’onda anomala – alta due metri invece che uno – e colano a picco). Io non ho ragione di dolermi perché la mia, da stamattina, è stata caccia grossa. Sono dunque sereno, e anche un tantino imbambolato (per pranzo un panino mangiato in tutta fretta; per cena un identico panino un tantino più raffermo con l’aggiunta però di una fettina in più di mortadella). Ho placato l’arsura con l’acqua fresca prelevata direttamente dal pozzo del Castello dai miei serventi al cannoncino. Cosa dunque di meglio per sentirsi beati; non guasterebbe un grammofono e un disco, preferibilmente di musica jazz (sono un patito).
    Quando si dice: pensaci intensamente e i desideri si avverano. Non faccio in tempo a formulare il superiore pensiero ed ecco arrivarmi le prime note, seguite dalle secondo e poi dalle terze. Non ci si crederà ma mi sembra di riconoscere il pezzo. Lo staranno suonando Lino Patruno al banjo e la sua band (Nicola Giammarinaro al clarinetto). Dovrebbe trattarsi di un Dixieland (primo a inciderlo Nick La Rocca, seguito poi da tanti altri tra cui il più grande di tutti: Bix Beiderback). Ma quale sarà il titolo: Le dieu o Petite fleure? E quale l’anno: 1917 o 1923? Come che sia (ecco che ritorna il come che sia) mi lascio incantare, seguo le note, canticchio, ed improvvisamente mi ritrovo in spiaggia, lido Nettuno, indeciso se andare a nuoto a vedere, arrampicarmi quindi al monumento da cui sicuramente sta scendendo quella musica celestiale; oppure salire su una barca a remi, color rosso (una di quelle utilizzate in casi estremi per andare a salvare chi stia per annegare), e infine remare a più non posso.
    Propendo per tale soluzione. Imbarco un salvagente trovato sulla rena – non si sa mai. Punto verso la costa siciliana e più precisamente il paese di San Giovanni La Punta, individuato da me attraverso il faro alternativamente accesso o spento a seconda che vada via la corrente.
    Sarà per la corrente favorevole; sarà perché quel tipo di musica mi elettrizza; sarà perché brucio dalla voglia di andare a vedere i luoghi dove si annidano meglio che altrove, quei cacciatori di frodo cui sto dando la caccia, fatto sta che tocco riva dopo appena finito il secondo brano sicché se tutto va bene potrò godermi il resto del concerto: non essendo dubbio essere quello in atto un concerto per qualche inaugurazione. Chi altrimenti chiamerebbe a raccolta centinaia (se non migliaia) di persone facendole sentire a New Orleans, in mezzo ai creoli (e anche in mezzo a qualche immigrato italiano in quella terra negli anni ’10-20: morto di fame sì ma altrettanto sicuramente desideroso di riscattarsi attraverso la musica, la più pura delle arti)? Non sarà per caso, anche quella cui mi sto avvicinando e che ospita il concerto, una qualche forma d’arte vicina se non connaturata alla musica, come ho detto la più pura delle arti?
    Non faccio in tempo a formulare un simile pensiero ed ecco che varco – così come sono e cioè bagnato fino al midollo a causa delle ondate cui sono stato esposto durante la navigazione – il cancello d’ingresso al luogo da cui quei suoni mi sono giunti, distogliendomi pertanto, sia pure temporaneamente, dalla mia missione (potenza del dixie, poi soppiantata dai gospel e dal soul!). Vengo immediatamente riverito dalle guardie poste al controllo di sicurezza (dopo però essere stato perquisito come fossi un gangster in quanto so di polvere da sparo). Una volta giunto, scortato, nella vasta radura dove ci saranno perfettamente sistemate a emiciclo un migliaio di sedie per chi voglia restarsene seduto (ma molti passeggiano e intanto picchiettano il suolo con punta e tacchi per suggellare il patto tra loro e quei ritmi), prendo posto; mi guardo in giro; osservo; scruto, e intanto memorizzo perché dell’accaduto voglio scriverci un racconto. C’è pure che venendo nel luogo dove adesso mi trovo ho notato delle automobili verniciate di fresco, con colori armoniosi da farti venire voglia di starci dentro, fare un viaggetto nei dintorni con degli amici – e amici di baldoria – ma dove ci troviamo?
    Come che sia (eccolo di nuovo il come che sia) finito il concerto e battute le mani come di consueto – e qualche fischio – mi addentro nel parco; leggo da qualche parte: Parco dell’arte La Verde – La Malfa; mi soffermo davanti a quelle automobili, alcune delle quali ridotte in rottami oppure appese per il collo ad un’asta o una trave come succedeva per i condannati a morte (e tale sembra la loro sorte se si pensi alle corde e catene usate per farle stare in quella scomoda posizione). Ci trovo poi, sempre nel parco – tutto viali asfaltati o lasciato allo stato primigenio con appena uno strato di ghiaia: il bianco alternato al nero della lava, e da qui capisco dovrei trovarmi alle falde dell’Etna – sculture disseminate qua e là di una certa Elena La Verde (chi sarà mai?) nonché la silhouette di un falco di un certo signore che mi dicono chiamarsi Giusto Sucato. Mi viene altresì sussurrato da uno sconosciuto – rimasto tale – di una visita che devo assolutamente a un certo museo. “Ci vada pure. Scoprirà”, dice lui, “altre bellezze”: oh che bellezza! A fare la parte da leone un paio di porte in legno, ricamate con dei soli e colombe in lamiera, elaborate e arricchite da segni grafici intraducibili ma riconducibili a forme di scrittura note – seppure non del tutto – a noi stranieri. Il fatto è però che sta per sopraggiungere l’alba. Prima di allora dovrò trovarmi sugli spalti del Castello Aragonese, sull’altra sponda (e intanto vedo passare i falchi notturni, quelli che non hanno nulla da temere dagli assassini: i cacciatori di cui ho parlato sopra, troppo ciechi per vederli in quanto sforniti di raggi laser). Insomma, perciò andare.
    Prima di congedarmi provo però a farmi spiegare il perché del baillame e il perché di quelle automobili sospese tra cielo e terra. Mi rispondono che la signora proprietaria del parco – da oggi destinato a fruizione collettiva – è una che sta appunto tra cielo e terra, anzi più in cielo che in terra. Vorrei conoscerla ma i guardiani (non quelli del faro, piuttosto quelli del Parco – sicuramente un parco delle meraviglie, visto il resto: tra cui piante grasse, piante magre, magnolie, eucalipti ed altre specie rare) mi dicono essere impegnata a rilasciare interviste. Che dunque mi metta a turno ed aspetti.
    Si sarà capito come nella circostanza non potevo, avevo ben altro da fare. Ritornai comunque a missione finita ed ebbi il piacere di avere con lei una chiacchierata informale. Mi spiegò il suo interesse per le opere di Moholy-Nagy e per Gabo, ma soprattutto per le loro “complicate costruzioni saldate erette nello spazio come a espandervi, e a complicarvi, l’idea del rigoroso ordine di Mondrran” (disse proprio così e aggiunse). “Non avendo una saldatrice mi sono dovuta accontentare di una spruzzatrice di vernice a pedale che ovviamente aziono io stessa. Il risultato, come vede in parte è diverso e in parte uguale”.
    Se ne uscì pure con una bella metafora, non ricordo esattamente le parole e che però più o meno suona così: “Tra noi e i nostri oggetti esiste solo una distanza mentale, non misurabile né percepibile ma che ci rende un tutt’uno con loro” per dire di come lei, dentro quelle installazioni, ci stesse tutta quanta.
    Chiusi il piccolo registratore, tirai fuori dalla tasca la cinepresa, ripresi più che potei del parco trovandolo in tutto simile a quello della Fondazione Maeght di S. Paule de Vence. Sentire ciò la fece felice. Almeno questa volta avevo fatto la felicità di qualcuno. Spero naturalmente che ci sia un’altra volta: sarà sicuramente molto meglio del c’era una volta.

Ignazio Apolloni

 

 
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