spacer.png, 0 kB
spacer.png, 0 kB
GIOVANNI OCCHIPINTI: UN RACCONTO

 

Ad attendere Antonio Maria de Rubeis alla Gare de Lyon di Parigi, c’era Fernande, una maschietta bellepochina euforica e tutta moine e sussulti, che sembrava venuta fuori da una tela di Boldini.
Nel vano tentativo di scorgere al di là del vetro opaco di un finestrino di prima classe, ella si sollevò alcune volte sulle punte dei piedi, girò e rigirò il lungo collo facendolo oscillare avanti e indietro e saltellò agitando le braccia nell’estremo tentativo di farsi notare. Poi squittì a vuoto un saluto, nella chiassosa indifferenza della folla che si affannava attorno ai bagagli.
Sulla vetrata dell’ampia tettoia, che si incurvava ad arco, si rovesciavano raffiche di pioggia, mentre qualcuno faceva notare che a Parigi l’acqua era attesa da tempo e che non se ne poteva più delle stagioni secche che da qualche anno affliggevano la Capitale e soprattutto il Midi della Francia. In effetti, stando alle cronache, si trattava della prima pioggia che chiudeva quell’anno dei primi del Novecento.
Fernande provò per l’ultima volta a strillare il nome di lui, ma già sentiva lo sconforto della delusione: non voleva rassegnarsi all’evidenza e per scaramanzia si diceva pronta a scommettere che Antonio Maria de Rubeis non si sarebbe mai persa la rappresentazione di alcune scene di teatro-danza, alle quali aveva peraltro collaborato, su Chrisia di Mitilene, in cartellone per quella stessa sera. Ma all’improvviso due mani vigorose la sollevarono. Antonio Maria de Rubeis l’aveva agguantata da dietro e ruotandola su se stessa ne faceva scivolare il corpo flessuoso sul proprio. Poi le sfiorò più volte il collo con le labbra prima di incollarle sulle labbra di lei. Da ultimo, con un gesto repentino, premendo con la mano da sotto insù, le fece schizzare un seno dalla scollatura. Lo ammirò, stupefatto, nella cornice di una vistosa collana di lapislazzuli che le scendeva sin quasi a lambirle le ginocchia.
-Mi hai strappato il fiato- esclamò Fernande mentre lo osservava compiaciuta e con le mani riportava il bordo della scollatura sul giovane seno impudico. -Non sei cambiato per niente, né nei gusti né nell’irruenza; e a ben guardarti neanche nell’aspetto.-
-L’aspetto?, vuoi dire che non sarei cambiato poi tanto dal nostro ultimo incontro?- rispose Antonio Maria de Rubeis con una sfumatura vanesia della voce; e intanto le faceva scorrere una mano sulle spalle, a tratti sfiorandole con le labbra le guance.
Irruente, cinico, con una spiccata tendenza alla contraddizione e notevoli cadute di umore e di stile, l’archeologo Antonio Maria de Rubeis non era stato solo il discendente, per via materna, di Gian Antonio Libertoli, appassionato studioso di “anticaglie” del XVIII secolo, ma grande amatore (mon tombeur de femme) così gli si rivolgeva qualche volta Fernande) che, prossimo ai cinquant’anni, per amore di quieto vivere (così, lui diceva) aveva stabilito di dividere con la sua allieva e compagna di ricerche e di scavi, Bertina Mennis, la casa e il letto, naturalmente insieme alla gioia dei viaggi che appassionavano entrambi.
La coppia di fatto avrebbe avuto lunga durata se non vi avesse messo lo zampino o meglio l’artiglio, lei, la morte. Bertina, ancora in giovanissima età, dovette dire addio alla vita suo malgrado, senza che vi fosse stato il minimo preavviso. Neanche un’ultima cena di congedo col compagno. Neanche un ultimo momento di tenerezza. Magari un ultimo sguardo complice, niente. Nemmeno la vertigine di un ultimo amplesso. Se ne andò in un soffio. Volò via così, come una foglia incappata d’improvviso nel vortice di un ciclone.
“La vita è ingiusta e crudele”, mormorò tra sé Antonio Maria de Rubeis. Ripassò in rapida sequenza alcuni quadri di vita vissuta con la donna, nel piacere e nel dolore, e corse a guardarsi allo specchio. Si ammirò. Si scrutò dalla testa ai piedi. Sorvolò su qualche ruga che gli serpeggiava sul volto e concluse di piacersi ancora nonostante tutto, sia pure commiserandosi. Tosto si posò una mano sui capelli impomatati di brillantina, si lisciò prima un corno poi l’altro dei mustacchi, anch’essi brillantinati, e con un rapido dietrofront voltò le spalle all’immagine riflessa: “La vita continua -si disse, determinato.- La vita è bella e va vissuta”. Si sentiva o si illudeva già di essere abbastanza forte per ricominciare a vivere. Eppure aveva amato e amava ancora Bertina. O così credeva. Strana la vita! Il fatto stesso di essersi messo con lei la diceva lunga sui suoi sentimenti e sull’intenzione di durarla il più a lungo possibile. Magari invecchiare insieme, sia pure tra una scappatella e l’altra, lui, bravissimo nella finzione di soccombere alla seduzione delle ragazze che seduceva. Guai a farsene scappare una. Quelle del suo corso, poi, le avrebbe portate a letto tutte, non escluse le colleghe di facoltà, cosa che con alcune accadeva puntualmente, anche se stravedeva (non era un segreto per nessuno) per le belle prostitute parigine.
Quelle volte -tre o quattro all’anno- che si recava a Parigi per motivi professionali, non rinunciava all’occasione di perdersi con le avvenenti fanciulle dei bordelli, tra i vicoli più suggestivi e sperduti della Capitale.
Ritornando in Italia, non mancava naturalmente di raccontare agli amici del solito Caffè degli Archi, ritagliato in un vicoletto umido e buio che slargava in un cortile cieco, che con “quelle”, altro che il freddo strofinarsi di carni, c’era tutto un altro gusto: -Sanno maltrattare, le signorine, e conoscono il mestiere.- Li guardava poi a uno a uno in faccia e con espressione divertita aggiungeva: -Nelle loro mani, anzi tra le loro cosce ti senti come un ragazzino che scopra il sesso per la prima volta. La tua febbre è alta e non sai sino all’ultimo momento dove ti conduca il delirio del piacere.-
Era fatto così Antonio Maria de Rubeis o, come gli diceva il solito amico moralista: -Sei impastato male, caro mio, e prima o poi uno scivolone lo prenderai anche tu: uno scivolone da cui è difficile rialzarsi!-. Belle parole, per essere di un amico erano anche pesanti. La natura è natura e nessuno può farci niente.
La sera, tornando a casa, egli finiva per cedere, anche se solo un momento, al vuoto della propria solitudine (giocava spesso, lamentandosene, sul sostantivo-aggettivo: “il vuoto della solitudine più vuota”): ed era come se nulla della sua fredda dimora gli appartenesse. Tutto gli era divenuto, a poco a poco, estraneo e lontano, perfino la percezione che aveva di sé. In certi momenti avrebbe perfino pianto. Pianto come un bambino, se ne fosse stato capace; e invece finiva per esprimere la sua rabbia nel linguaggio della bestemmia. Proprio così, sentiva il fastidio di uno smarrimento che subito cercava di superare, arrabbiandosi contro la sorte che definiva, stringendo i pugni e gridandolo, “una gran sorte bastarda!”. Tosto si ricomponeva e ritornava a cercare qualcosa che era appartenuto a loro due, soprattutto a lei, per toccarlo e accarezzarlo quasi feticisticamente; o si sforzava di immaginare gli occhi della donna sperando invano di sentire il calore delle sue carezze e di ascoltare il suono, giovane, delle sue parole e dei sussurri, caldi e dolci, come solo lei sapeva, specie quando gli si strusciava contro, spingendolo verso il muro per non dargli via di scampo: -Ho fame di te- gli sussurrava, fissandolo negli occhi. -Dimmi che non ti stancherai mai di me, che mai ci lasceremo.-
Quella scena e quelle parole gli tornavano spesso alla mente: “Già, non ci lasceremo mai. È proprio vero che un grande amore fa sentire eterni! Eterni?...”. Si correggeva col dubbio dell’interrogativo, lasciando all’afflizione -lui, cinico- il senso vero della condizione umana: la caducità, l’essere-per-morire ovvero l’irreversibile dissolvenza della vita. Diceva proprio così: “l’irreversibile dissolvenza della vita”.

A Parigi amava passeggiare con la sua donna per le strade che Balzac aveva descritto in Storia dei tredici. Molte di quelle strade conservavano ancora il fascino, le caratteristiche e il sapore del buon tempo andato. Continuava ad affascinarlo l’Isola di San Luigi, triste e crepuscolare, per le immagini delle case nelle quali si vedeva come un inquilino. Ogni volta immaginava di abitarne una diversa: ne scorgeva la luce, ne sentiva gli odori, ne percepiva i silenzi i drammi le tresche amorose gli inganni. Ne vedeva le pareti scrostate e muffite, con larghe chiazze di umidità e le fessure gocciolanti dei soffitti. Non finiva di riflettere sulla miseria umana annidata tra quattro muri e sotto tetti pericolanti: tutto provvisorio in quei quartieri, anzi l’unica condizione stabile di vita riteneva che fosse, paradossalmente, proprio la fatiscenza. L’essere provvisorio, appunto. Il non sapere oggi ciò che ci toccherà in sorte domani. Un altro luogo e un altro tempo, il domani! Il futuro sarebbe dovuto partire dal presente, ma in quelle case si viveva ancora al passato. A queste riflessioni egli si abbandonava spesso, quasi che volesse costringersi a frequentare quei luoghi e darsi occasione di meditare sulle tristezze dell’uomo. Così, tutte le volte. Un cinico che a modo suo tentava esercizi spirituali?
Tra un pensiero e una riflessione finiva per trovarsi a vagabondare per Piazza della Borsa, in compagnia di prostitute, lenoni e borseggiatori. Era a questo punto che gli tornavano alla memoria le parole di Balzac: “Oh! Parigi, chi non ha ammirato le tue cupe viuzze, i tuoi sprazzi di luce, i vicoli chiusi, profondi, silenziosi […]”

Oh, come amava l’effetto notturno dei lampioni sui seni e sulle cosce bianchissimi della donna! I colpi di luce sul volto che i movimenti ora lievi e dolci, ora convulsi, le imprimevano, sfumandole o facendole risaltare i particolari della bocca e del collo e degli occhi: ombrettature peccaminose (così le definiva, scherzando al solito Caffè degli Archi, con i soliti amici) e sguardi viziosi avidi infidi stanchi malati appassionati insaziabili smarriti.
Sempre così: si addentrava con lei per stradine galeotte, che alternavano ombre profonde, come sfregi da ferite, a squarci pietosi di luce di un qualche fanale. Poi si perdevano nello stordimento di un sesso febbrile rapido aggressivo muto. Talvolta lo respingevano nelle camere d’albergo, anonime ed estranee a ogni forma di complicità lussuriosa, per viverlo nella maniera più esaltante e affannosa lungo strade notturne e infami, dove tetri androni di palazzi si scaldavano al calore di carne prostituta.

Altre volte Antonio Maria de Rubeis era tornato, dopo la morte di Bertina, nelle strade che odoravano di Belle époque e di stantio a cercare nei bordelli signorine d’occasione. Da dandy e nottambulo si univa spesso alla sua preferita, Fernande, o a Florence Colette Monique Brigitte Gerardine Madeleine Yvette Charlotte Lucienne Marguerite Hélène Virginie Julie Juliette Gisèle Nadine Gabrielle. Con loro si addentrava nella ragnatela di viuzze, in quartieri malfamati, e amava nei posti più scomodi e impensati, quasi fuori dalla realtà e dal tempo. Si spostavano con rapidità -agiti dalla follia di possedersi- da rue Foyatier a Fontaine Wallace in Place Saint Sulpice, o in qualche angolo di gradinata, a Montmartre,  spingendosi sino al Cafè des quatre vents o in qualche bistrot-à-vin. E qui, tra una caraffa e l’altra egli finiva per parlare alle ragazze della sua donna, indimenticata e indimenticabile e del tempo vissuto con lei. Ella gli stava accanto, invisibile -raccontava-, e il suo sguardo si smarriva, come a dare la misura del vuoto che viveva. A sentirlo, quell’antico amore era un fantasma nelle sue giornate, anche quando lavorava o viaggiava o oziava o dopo essere stato con una donna: un fantasma, a sottolineargli il senso di colpa per l’infedeltà del sentimento. Ciononostante, i suoi giorni continuava a viverli come sempre, a modo suo, cinicamente e da narciso. Nulla avrebbe cambiato della sua vita se non nei momenti di sconforto e di pena.
Nelle notti insonni gli affioravano alla memoria scene di vita vissuta con lei e allora gli sembrava di rivederla nell’atto di seguire alcuni adempimenti professionali mentre scavava con la picozza o, sotto il sole cocente, accosciata a spazzolare i reperti rinvenuti nella tomba di Chrisia di Mitilene, anni prima in Grecia. Gli tornava l’immagine lontana di lei: insieme, in albergo, si dedicavano al lavoro di traduzione e interpretazione della scrittura dei papiri egizi, sui quali Chrisia, vissuta approssimativamente tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., aveva stilato il suo diario di fanciulla, di donna e di vecchia curiosa di conoscenza, di amore e di sesso.

 Giovanni Occhipinti
 

 

 

 

 
< Prec.   Pros. >
spacer.png, 0 kB
spacer.png, 0 kB
 
Web Design by Ugo Entità & Antonella Ballacchino - Web Master by Miky
download joomla cms download joomla themes