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FRANCESCO RINZIVILLO - TESTO DI ANDREA GUASTELLA

 

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Le linee rosseggianti che compaiono in certe opere di Francesco Rinzivillo presentano straordinarie somiglianze coi tessuti arteriosi, con le vene ingrandite al microscopio. Ciò potrebbe intendersi come un’estensione dei territori del naturalismo, ma può anche essere la rivelazione di una sottile armonia che pervade l’universo e che, lungi dal rendere inevitabile il conflitto tra arte e scienza, lo inscrive all’interno di un fecondo e reciproco arricchimento: la scoperta, all’interno dei rispettivi ambiti, di una vocazione estetica della scienza e di una cognitiva dell’arte. In fondo, cos’altro è una vena – o una macchia di rosso screziata – su un fondo cupo se non l’immagine criptata di un confine? E cos’altro è il confine se non quello spazio che, come osserva Foucault, possiede “la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, o invertire l’insieme dei rapporti da loro stessi designati, riflessi, o rispecchiati”? Fare esperienza del confine significa allora compiere un superamento, anche morale, dei propri orizzonti, riconoscendo aspetti diversi di una medesima realtà come parti di una complessità sola. È questa, credo, l’aspirazione profonda della pittura di Francesco, il senso di una ricerca che, dal figurativo degli esordi, è approdata al deserto dell’astrazione non per negare senso al visibile, ma nel tentativo, ingenuo e struggente, di “Vedere il mondo in un granello di sabbia. / E il cielo in un fiore. / Tenere l’infinito nel palmo della mano. E l’eternità in un’ora...”. (William Blake).

Andrea Guastella

 

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