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ANTONIO DI SILVESTRO: VIAGGIO DELLA PAROLA

 

VIAGGIO DELLA PAROLA


   Nuova appassionata testimonianza di fedeltà alla poesia, Il viaggio dello sguardo reca già in epigrafe le due parole chiave in cui si racchiude il mondo immaginativo e autobiografico-mitopoietico di Giovanni Occhipinti. Intitolando una sua recentissima autoantologia La veggenza del verso,  egli ha inteso parlare di una parola chiamata a farsi al tempo stesso canto di una totalità infranta e di un’ansia palingenetica. Se da un lato questa parola può risarcire la percezione di ogni dissonanza facendosi sguardo, dall’altro un ulissismo modernamente disincantato e arcaicamente aperto allo stupore sul mondo compie l’esperienza di un viaggio «dalla caverna / a noi».
   Quello che è stato definito «romanzo cosmico»  non discende, se non per allusioni sfuggenti e talvolta ambigue, alla vicenda privata. Si direbbe che la voce divenga più che mai corale, e che in questo io-noi si compendi la forza di un’autobiografia intellettuale affidata a queste «Allegorie e tesi poetiche».
   È proprio tale sottotitolo a ribadire la tensione all’assoluto del linguaggio, laddove l’unità poematica sembra recedere dal verso alla parola-monade. Seguendo la consueta tendenza alla distensione narrativa, la dizione si affida anche qui a una forza evocativa ottenuta con iterazioni lessicali, sintagmatiche, riprese di sequenze verbali dal finale di un ‘movimento’ all’inizio dell’altro, a guisa di coblas capfinidas. Tuttavia l’autore attinge, quasi in un dantesco “visibile parlare”, alla capacità della parola di disegnare un’immagine, di attingere quella visionarietà e concettualità identificate già da Barberi Squarotti quali peculiarità del mondo poetico di Occhipinti.
   L’Introibo si apre all’insegna del dono, richiesto a un “tu”, di «una rima / una parola / che inventi / la trama lunga della Storia». L’ansia ricapitolativa è ricordo di una voce che giunge «dal tempo del Tempo» e che parla «di un’alba nuova». Il viaggio dello sguardo comincia dalla nostalgia di uno sguardo primigenio, quello sul naufragio di stelle «in abissi di Cosmo» (con qualche ammiccamento al Pascoli astrale, anche nella ‘riduzione’ miricea del «pianto di stelle»). Gli «altri» sguardi si limitano a guardare la «nebbia fitta / che ci nasconde a noi», «l’inutile via si cui mai dirada / la nebbia della follia del mondo». Nebbia che è inganno del mondo come rappresentazione (e nella fictio ingannatrice rientrano gli «abbagli / di luna» e gli «splendidi assoli»): da qui la richiesta a un Dio poco prima ritrovato e invocato di uno sguardo in grado di purificare «la ragione oscura, il senso sbagliato / della vita, l’angoscioso suo male».
   Mentre si protende alla trascendenza, lo sguardo subisce lo scacco delle apparenze, sia nella dimensione dell’infinitesimo che in quella dell’infinito, nel «globo effimero» della goccia come nell’«oltreazzurro» del cielo. Ma l’ultima diserzione è quella di un tempo che si ritrae, e riduce il passato e il futuro alla misura di un presente fatto di sangue. L’occhio diviene allora metonimicamente creatura en souffrance, pronta a patire l’offesa di una Storia di colpe: «L’anima dello sguardo brucia / se un fuoco di colpe / invade la memoria / della terra e riattizza / il dolore del Tempo».
   Lo «sguardo / stanco di mondo» si acquieta, non senza qualche amara ironia («ora tutto va bene»), in un’immanenza che però è «Inferi dell’uomo» (e che ricorda uno dei primi titoli dell’autore, Agl’Inferi all’Averno [del 1980]), con un pianto di cielo che riconferma, nel proscenio del mondo, la solitudine del soggetto guardante.
   Negli aforismi intitolati Il viaggio dello sguardo (che è la sezione centrale e più corposa della silloge) quest’ultimo si fa attore di un theatrum mundi (l’espressione «teatro dello Sguardo», per l’etimologia del primo termine, può apparire quasi pleonastica), in cui si esperisce un dualismo che circonda il soggetto a tutti i livelli: trascendenza/immanenza, visibile/invisibile, io/tu, autenticità/finzione, presente/passato-futuro, tempo/eterno, essere/non essere, ecc.
   Da Pirandello a Kafka, da Pessoa a Beckett, da Pascal ad Agostino, da Platone all’esistenzialismo, tutto un crogiuolo di reminiscenze letterarie e filosofiche si illimpidisce nella forma concisa e al contempo asistematica della sententia. L’arguzia linguistica dell’epigrammista di Rime nel museo delle cere (1991) e di Lapsus d’autore (2006) si decanta in una sequenza dove non mancano il fulmen in clausula, l’invenzione ironica, la divertita ricapitolazione che tengono costantemente a distanza ogni tentativo di discorso ‘a tesi’. In un epos terreno e metafisico, in cui convivono l’orrore della Storia e l’inautenticità dell’esistente, tra la ricerca di un «oltrecielo» (vocabolo montaliano) e la prigione dell’hic et nunc, lo sguardo sembra agire quale entità polimorfa, identità plurima che assume Mente e Parola ma che alla fine constata la sua limitatezza. La ricerca di uno «Sguardo Sommo» inscrive la parabola del soggetto nella evangelica narrazione del sacrificio di Cristo, capro espiatorio di un’implacabile ruota che riparte al cospetto del «popolo degli Sguardi». Un Cristo testimone di un mondo manipolato nelle sue creature, attore di una modernità dissacrata, che distrugge aghi e provette nelle bancarelle del «mercato degli sguardi», totalmente immerso in un drammatico viaggio conoscitivo. Egli è capace di abdicare ad ogni «varco folle di Ulisse» e al contempo sfidare l’Ignoto, di tendere alla ricerca del nulla e di fermarsi al guscio di una noce. Eppure la scoperta più profonda sembra quella legata all’ineliminabile condizione dell’essere-qui-e-ora, all’agnizione della Poesia in un paesaggio montalianamente e leopardianamente connotato con agavi e fiori di ginestra, dove il Mare con le sue sinfonie ci riporta ai titoli ‘musicali’ di Occhipinti (tra cui il recente Sinfonia per conchiglia [2002]).
   Chiude questo trittico la sezione Allegorie, dove l’affabulazione lirica si apre insieme al tremore della storia e allo slancio verso l’«oltreluogo» dell’esistenza. Il discorso è quello dell’attesa di «un’altra vita», del rinascere alla vita. L’io anela a essere «velo d’aria» per respirare «un’aria nuova» ed essere «bozzolo nel bozzolo», ma anche vivere nel «provvido respiro», nel flatus di un Dio che «annulla affanni e mostra strade nuove / di vita».
   Il volo di un airone cinerino, che si avventa sulla preda e viene fermato dall’acqua rappresenta «i servi buffoni della violenza», corifei di un Potere che «implode sulle sue stesse mura». L’inspiegabilità del Male storico è ancora una volta imputata a un Cielo che si sottrae allo sguardo giudicante ma «indifeso» dell’occhio, frustrando ogni ricerca del Senso. Il “tu” cui ora il poeta si rivolge è quello di chi ha perso memoria della propria esistenza, e la sua storia «invernale», definita «caverna capanna forra foiba di ghiaccio», testimonia di un «sonno eterno delle cose». Da qui l’invocazione in termini da montaliano visiting angel: «Avessi almeno un segno del tuo passaggio / su una qualsiasi terra dell’universo, / dove invece è assente ogni tua orma!».
   E un’aura montaliana si respira in quella ironica ma anche disincantata dichiarazione di “inappartenenza” rispetto a un’esistenza indecifrabile, teatro della quale è un cielo il cui azzurro è ormai contaminato dal grigio. Di fronte al tu che ha «altri tempi» e che parlava «parole novelle, azzurre», l’io non rinuncia tuttavia alla pascaliana scommessa, anche se la «manna / quotidiana dell’esistenza» scuote ogni convinzione di esistenza ontologica o di inconsistenza.
   Si direbbe che in questo momento Occhipinti attinga alla sacralità dell’esistere nella caducità del nostro mondo, quella che egli chiama «sommessa esistenza nell’immanenza / del mondo». Quando egli parla di «essere dell’essere» ci sembra di riascoltare il Quasimodo di Dare e avere, il quale, nell’«assurda differenza che corre / tra la morte e l’illusione / del battere del cuore» (Ho fiori e di notte invito i pioppi) si affida totalmente alla forza dell’amore: «ricorda che puoi essere l’essere dell’essere / solo che amore ti colpisca bene alle viscere» (Solo che amore ti colpisca). La riconciliazione con l’immanenza, con l’«infinita meraviglia di esserci», fa sgorgare le domande di chi ha perso l’innocenza adamitica, la condizione del bestione vichiano, e chiede la rivelazione a Colui che si è mostrato nella sua povertà e nudità.
   Dalla deiezione di una Storia «sorella ostile / delle epoche» e dall’oscurarsi di una poesia che però all’origine «sboccia nel fiore della Parola», l’io si solleva ungarettianamente dal «limpido barbaglio della promiscuità», e riscopre la possibilità sempre aperta di un cosmico stupore.


Antonio Di Silvestro

 
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