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ALDO GERBINO: "ANTIGRUPPO" E GRUPPI FRA TRAPANI E PALERMO. MANIERA, IMPEGNO E CANTO

 


Estratto da “Storia della Sicilia”, volume ottavo, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Editalia – Domenico Sanfilippo Editore, pagg. 601-602 e 604-605.


“Antigruppo” e gruppi fra Trapani e Palermo. Maniera, impegno e canto
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta le inquietudini dei giovani raccolti attorno a Luciano Anceschi e alla celebrata rivista «Il Verri», nonché al gruppo dei “novissimi” (Sanguineti, Pagliarani, Porta e altri), vede Palermo quale polo della sperimentazione letteraria, artistica, teatrale e musicale. Roberto Di Marco, Michele Perriera e Gaetano Testa pubblicano con Feltrinelli La Scuola di Palermo anticipando così la nascita del Gruppo ‘63 (il loro catecumenico convegno fu infatti registrato a Palermo nel 1963) che ordinò il manipolo della sua avanguardia.
Non si riconobbero nella linea del Gruppo ‘63 alcuni giovani scrittori e poeti siciliani i quali, nella seconda metà degli anni Sessanta, costituirono l’Antigruppo (Crescenzio Cane, Ignazio Apolloni, Pietro Terminelli, Nat Scammacca – principale animatore di cui vanno ricordati tra i tanti testi: Ombre e luci, Glenlee, A Lonely room –, Santo Calì, Rolando Certa). Con essi ancora aderirono, o vollero respirare quella atmosfera, scrivendo nelle ricche antologie del tempo, raccolta in due ponderosi volumi (Antigruppo), autori quali Carmelo Pirrera e Gianni Diecidue, espungendo i sentimenti di rivalsa, troppo spesso vestiti del tono litigioso della provincia, con più avvertite esigenze di autonomia sperimentativa e che avessero anche la caratterizzazione del rispetto della territorialità culturale. Figure prossime, quelle dell’Antigruppo, alle frange estremiste dell’ideologia marxista, rappresentarono le caratteristiche icone del sottoproletariato urbano. Molte le pubblicazioni di antologie, libri, riviste, ma restarono (sin da quel confinato periodo e con qualche eccezione) un fenomeno locale spesso con prove letterarie di esile valore, vestito di un acceso epigonismo, come del resto simili fenomeni furono registrati in altre aree del meridione italiano. Figura di spicco fu senza dubbio Santo Calì, che, come riferisce N. Mineo, fece uso di una scrittura dialettale la quale «non riproponeva certamente valori del passato per conservarne il senso e per proiettarli come futuro. La sua è un’operazione di “inclusione” nel dialetto dei valori più moderni e, poiché rivoluzionario era, dei valori rivoluzionari». Un autore, un poeta che Mineo registra dentro «una tradizione che ha – a monte – Porta e Belli, cioè i poeti che hanno rivelato il mondo popolare non come mondo folklorico ma come mondo di sofferenza, come mondo di dignità umana». Ma con esso va evidenziata, per l’assunzione di una identità autonoma fortemente inserita sul versante della comunicazione e del fascino multimediale, la figura di Ignazio Apolloni (vedi in questo volume) e, per il suo valore temporale, il centralismo proletario nelle opere di Crescenzio Cane (Palermo 1930).
Da questo impegno, protrattosi sia sul piano di una vigile attenzione nei confronti del linguaggio (Apolloni) sia del senso e del peso della parola (Pirrera), proprio Carmelo Pirrera (Caltanissetta 1932) consente negli anni la levitazione della sua scrittura attraverso un’intensa attività pubblicistica (operata su scenari letterari del tempo quale “Impegno 70” e “80”, il cui maggiore promoter fu Rolando Certa, e soprattutto attraverso una riacquisizione dei termini poetici ribaltando esperienze personali e collettive della sua area d’origine (quella nissena), ricca di suggestioni e innervata da un realismo profondamente coinvolto con il mito. L’espressione di Pirrera, rivolta sul fronte della prosa sin dagli anni Settanta (La ragazzata, 1972; Quaranta sigarette, 1974; Il colonnello non vuole morire, 1974; Ipotesi sul caso Maiorana, 1981), è soprattutto nella poesia che ritrova la sua dimensione più assorta (da Quartiere degli angeli del 1968 a Quest’animale muore del 1976, da Giocando con la polvere del 1982 a Il miele di maggio del 1985), più partecipe sul piano delle emozioni e della consapevolezza. Ma l’attività di agitatore culturale permane, dirigendo la piccola rivista «Issimo», con la redazione della poetessa Francesca Traina e di Pino Giacopelli (di cui vengono segnalate tra le più recenti auto-pubblicazioni: Mizar, L’Officina delle comete, Semi di rosaspiga, Flauto di cristallo, Opus incertum, L’inevitabile accade sempre), o curando piccoli volumi per le edizioni Il Vertice. Un’attività e un’identità poetica, quella di Pirrera, attenta al vasto seme del respiro della memoria e della realtà, dove vengono riconosciuti tra i padri le figure indimenticabili di Vann’Antò e Calogero Bonavia.


Ignazio Apolloni. Oltre i confini della visionarietà


Se dovessimo evidenziare il vasto ecumene letterario di Ignazio Apolloni (Palermo 1932), potrebbe essere sufficiente il termine che Stefano Lanuzza esprime nel testo di presentazione del suo più recente testo di narrativa (Racconti patafisici e pantagruelici): «un brulichio di figure burlesche, paesaggi sghimbesci, eventi tumultuosi e patetici, anima questo libro connotato da uno spirito d’osservazione calcolatamente disinvolto, ironico, frammentario, martellante, e antisistematico; oltre che da un lessico autoreferenziale o discentrato dal senso: malizioso e infido, inteso a significare un mondo che nella sua difformità non ha confini né facili rifugi». Questi – continua – «sono negati dall’autore sempre lesto a superare con una battuta o un’arguzia qualsivoglia dialettica, temeraria morale, sintesi subliminale, retorica epicità».
Visione e manualità, marchio e gesto, tracciati fono-idosemantici, lettering e neochirografie, fanno di questo poeta (e scrittore) singlossico e sperimentatore dell’antinonsense, di questo surreale costruttore di libri lignei, distanziatosi dall’epigonismo manieristico di cui è stato afflitto il Gruppo ‘63, un’autonoma voce di ricerca. Interessanti e vivaci le sue «sketch-poesie», il cui «aspetto fondamentale», scriveva Rossana Apicella (1979), «può essere identificato nella ricerca della singlossia come coscienza e scelta di un modus, di una ratio operativi: Apolloni non incontra occasionalmente la singlossia come un veicolo di comunicazione che gli consenta di essere, agevolmente, «dans le vent», dal momento che, oggi, non è possibile essere neoteroi o novissimi senza essere vecchissimi e desueti, ma è possibile solo essere contemporanei nella reificazione di un linguaggio idofonosemantico». Nell’uso della linea, del corpo simbolico, della parola assunta come categoria o come oggetto drasticamente immerso nella sua più impetuosa natura semantica, come nella continua deflagrazione operata tra il significante e il significato, e ancora attraverso quella voluttà pronta a sostenere l’impeto del calembour, viene consegnata alla visione scardinante di Apolloni una singolare ricchez¬za di umori creativi. Di Ignazio Apolloni vanno ricordate le opere di narrativa: Niusia (1965-68) e, dopo le esperienze delle Favole per adulti, i trentuno racconti di Capellino, il romanzo poetico-metafisico Roma 1956 e Gilberte (1997), raccoglie parte della sua poesia in Singlossie / Ignazio Apolloni (1997). Recenti: l’opera buffa L’histoire de l’oeuf a’ la coque (2000) e Racconti patafisici e pantagruelici (2000). La sua visionarietà ri-creativa si libra, con una vigoria coinvolgente e tumultuosa, in ogni forma di comunicazione, in una fluviale quanto canalicolare espansione, attraverso la fantasmagoria acromatica di irruenti pieghe corporali e psichiche.

Aldo Gerbino

 
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