Monologo del fuoco
La mattinata è figlia di un cielo gravido di stelle pesanti sopra radure aperte senza conoscenza del tuo disordine di donna che gira in un giardino di mobili – Solo uccelli mancano tra i rami del tuo erbario casalingo Dove le promesse mantenute nei giorni finivano sempre nell’album delle strade percorse Ora si fermano questi ricordi murati alla novità della bellezza dal controsenso dell’amore che spira nel conflitto insondabile dell’essere troppo vicini a ragionare instancabilmente a sapere i decreti del senso comune così forti cabale di sogni-angosce pervicaci
La mia valigia non vuole viaggiare senza il tuo peso la testa pesare senza il tuo pensiero – rosa eterna che bruci sangue d’oro e di vita
Sono ancora un adepto che rovista le mani crede nel sorriso decifra gli sguardi in proprio favore Dal telefono viene la notturna diligenza del riposo fatta di parole-mormario-d’acque-sepolte acrobazie del sogno sulla corda del circo del mondo - Una lettera assurda scritta sul molo delle partenze immaginate la valigia con mille etichette non si muove più Cosa hai fatto che ti è accaduto e non rispondi perché sai che non poteva essere che questo il momento per cadere – non per stanchezza non per pigrizia -doveva esserci anche il giorno dorato delle confessioni la voce sommessa degli errori la cronistoria sbiadita delle consumate esperienze – Tutto ho narrato anche l’incredibile storia che il passato è passato -e mi credi e mi sventoli in faccia un sorriso leggero per tante follie e stupide ore trascorse senza amori sicuri -Tu hai proprio quei capelli che il vento ama smuovere – hai gli occhi che tutti vogliono guardare – sei una viaggiatrice anche tu Seduta nel mio scompartimento leggi il giornale e ti annoi con occhi di tigre mansueta clessidra nella mano volontà dell’albero che cresce
Se non ho mai abitato nella bella penombra delle tue mani nel battito del tuo ciglio – lucertola accesa di luglio siepe disegnata nell’astratto confine del sogno trasalimenti e splendori di piume chiarissimo bronzo di luce e d’acqua di terre confuse – ora vedo la libertà del diavolino di Cartesio che rompe il cilindro di cristallo e la penombra l’unghia del sole il piumino della concordia – tutto che vola sopra lo stagno già morto s’innalza per un appetito di nuvole sciarpa del tuo ardente pulsare schiuma di baci smarriti sulla veloce clessidra del fuoco dell’armonia
Monologo del distacco
Aveva abbassato la tesa del cappello la veletta andava su e giù mano di luce uccello irrequieto che cerca un bersaglio e non lo trova e nella stanza i mobili pesanti di sabbia - già pesanti di sabbia sotto le stoffe accurate- lamentavano la loro esistenza incompiuta al suono dei tarli - ma erano cicale prigioniere sopra rami di lino balconi sugli orti di sambuco e di cicoria coll’alone del faggio spiumato a primavera
era enormemente difficile stabilire l’ora il tempo aveva preso la rincorsa senza scrivere una data - alcuni bagliori erano da scordare alcuni segni da ricordare – e le vetrine aspettavano
Le città in lutto bordate d’oro per il loro funerale facevano un giro su se stesse ballando dietro gli scoppi – e le grida appena soffocate gli strappi del silenzio i rilievi delle antiche chiese gli ostensori declamati dalle candele in un capriccio di tenebra Alla stazione il convoglio cerca di cambiare strada inseguendo un richiamo colorato un uccello grida non si sa dove e perché Anche il finestrino aveva abbassato e io dissi vai in macchina è meglio – non poteva essere meglio non poteva essere peggio Quando si dice partire la barca e la nave sono due simboli per l’acqua come l’automobile e il treno per la terra
Cosa fai?
Fuggire staccarsi dal proprio corpo senza rompere il cordone d’argento rimanere col telefono alzato sulla voce che tace e copre d’alfabeti incomprensibili le distanze e gli amplessi
la seta del letto portava qualche tiepida macchia una verità durata un momento
Saluta dietro il cappello fatti schermo delle tue ossa trasparenti corri a Parigi la Senna e le altre cose delle insegne e dei dépliants accusa l’impero di Ninive per la sorte che smantella le certezze più decise
Oh se nel Tibet vi fosse il Lama che hai cercato se ti conducesse nelle caverne screziate di ricchezze di misteri di ruote della vita per condurti all’altra sponda alla definitiva rinascita allora sì che il Viaggio sarebbe interessante
Dietro le vetrine le bolle di gassosa dei passanti urtano gli oggetti senza toccarli una musica arrotola gli uccelli in uno scialle per rendere il veleno prezioso – infatti nel tuo sguardo di terrori egizi scintilla come un pigro avvertimento
Ma non è il momento di giocare
Scende la neve copriti gli occhi arriva il fantasma di Macbeth e tu Lady vorresti cancellare la luna.
...quanto dire che questa poesia, se pure nasce, com’è naturale, dall’intimo dello scrittore, non nasce mai dal suo io presente, non ha nulla a che fare con l’occasione quotidiana e con quelle improvvise insorgenze del sentimento che, almeno in apparenza, sono il tema di tanta lirica, è piuttosto il risultato di un recupero, d’uno scavo negli ipogei della coscienza, d’una specie di paziente e attonita archeologia della memoria che riporta alla luce, a somiglianza di frammenti arcaici, lontani antefatti sentimentali e morali che per essere stati così a lungo a giacere nell’io profondo dallo scrittore, sembrano essere trasformati in emblemi atemporali e come incrostati di significati remoti il cui valore comunicativo ci attira assai meno del loro potere di suggestione… Mario Pomilio ( 1973 ) Sablone, che è nato a Pescara nel 1935, è uno dei poeti più attivi e costanti della sua generazione. L’oro di Bisanzio è il frutto più maturo di circa venticinque anni di lavoro: quasi un poema di forte e al tempo stesso enigmatica significazione religiosa; un poema che interroga, nei secoli, la storia dell’uomo. Agostino, Tommaso, Paolo Silenziario, Borges e Hesse sono gli interlocutori impliciti e dichiarati di questo poeta itinerante che ricerca nei secoli una coerente immagine della propria stessa vita. Luigi Baldacci ( 1979 ) I monologhi di Sablone sono in verità una testimonianza appassionatamente, laceratamente individuale, eppure tali da suggerire una dimensione universale che il marcato accento religioso caratterizza ed esplicita. E religione vuol dire per Sablone non pacifica risoluzione e quiete nelle braccia di una verità posseduta, ma mistero - “a me / che ti conosco senza conoscerti” - e dunque speranza tutta affidata a strumenti al di là dei consueti forniti dall’esperienza delle ragioni biografiche, che sono palesemente per lui il luogo del dubbio ma insieme l’unica indicazione di una certezza. “Solo ciò che fugge / eternamente dura”.
Giuliano Manacorda ( 1982 ) Voglio far sapere (…) quanto la considerazione della tua opera sia andata crescendo in me dai primi un po’ sommari consensi di lettore all’interessata attenzione odierna per ciò che elaborano la tua sostanziosa cultura e la tua complessa sensibilità formale. I tuoi sono sempre ‘libri di vita’, il contrario delle correnti ipotesi strutturali e linguistiche che ci assediano, e questo mi piace. Aggiungi che le misure e le dismisure che collidendo e confricandosi accendono la tua giornata e danno qualità alla tua vita ( alla vita dei tuoi libri ) sono convincenti e molto coerenti con il nostro comune problema di certezza assoluta… Ti abbraccio e ti mando un augurio per l’anno nuovissimo. Tuo
Firenze, 1.1.1987 Mario Luzi (…) Ma Sablone, poeta di intrepida ricerca stilistico-spirituale, non è per le soluzioni facili. Il suo muro che ogni giorno ‘assottiglia l’orizzonte / dentro la vita ‘ è qualcosa di nuovo, un simbolo che si incunea in una trama di simboli in movimento, in una specie di sacra - e laica - rappresentazione dell’anima. Più che a Montale, penserei a un Ungaretti influenzato a sua volta da Blake. Ma Sablone non ha molte parentele accettate. Il suo discorso procede solitario. Si avverte che nei versi c’è una continua, personalissima ricerca di saldare lirica ed etica, visionarietà e saggezza. Giuseppe Conte ( 1994 )
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