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BENITO SABLONE

 


Monologo del fuoco

 

La mattinata è figlia di un cielo gravido di stelle
pesanti sopra radure aperte senza conoscenza
del tuo disordine di donna che gira
in un giardino di mobili – Solo uccelli
mancano tra i rami del tuo erbario casalingo
Dove le promesse mantenute nei giorni
finivano sempre nell’album delle strade percorse


Ora si fermano questi ricordi murati
alla novità della bellezza
dal controsenso dell’amore
che spira nel conflitto insondabile
dell’essere troppo vicini a ragionare
instancabilmente
a sapere i decreti del senso comune
così forti cabale di sogni-angosce pervicaci


La mia valigia non vuole viaggiare
senza il tuo peso
la testa pesare senza il tuo pensiero –
rosa eterna che bruci sangue d’oro e di vita


Sono ancora un adepto
che rovista le mani crede nel sorriso
decifra gli sguardi in proprio favore
Dal telefono viene
la notturna diligenza del riposo
fatta di parole-mormario-d’acque-sepolte
acrobazie del sogno sulla corda del circo del mondo
 - Una lettera assurda
scritta sul molo delle partenze immaginate
la valigia con mille etichette non si muove più
Cosa hai fatto che ti è accaduto
e non rispondi perché sai
che non poteva essere che questo
il momento per cadere – non per stanchezza
non per pigrizia
                      -doveva esserci
anche il giorno dorato delle confessioni
la voce sommessa degli errori
la cronistoria sbiadita
delle consumate esperienze – Tutto ho narrato
anche l’incredibile storia che il passato
è passato
                       -e mi credi e mi sventoli in faccia
un sorriso leggero
per tante follie e stupide ore trascorse
senza amori sicuri
                        -Tu hai proprio quei capelli
che il vento ama smuovere – hai gli occhi che tutti
vogliono guardare – sei una viaggiatrice anche tu
Seduta nel mio scompartimento
leggi il giornale e ti annoi
con occhi di tigre mansueta
clessidra nella mano
volontà dell’albero che cresce


Se non ho mai abitato
nella bella penombra delle tue mani
nel battito del tuo ciglio – lucertola
accesa di luglio
siepe disegnata nell’astratto confine del sogno
trasalimenti e splendori di piume
chiarissimo bronzo di luce e d’acqua
di terre confuse – ora vedo
la libertà del diavolino di Cartesio
che rompe il cilindro di cristallo e la penombra
l’unghia del sole il piumino della concordia –
tutto che vola sopra lo stagno già morto
s’innalza per un appetito di nuvole
sciarpa del tuo ardente pulsare
schiuma di baci smarriti
 sulla veloce clessidra del fuoco dell’armonia


Monologo del distacco


Aveva abbassato la tesa del cappello
la veletta andava su e giù mano di luce
uccello irrequieto
che cerca un bersaglio e non lo trova
e nella stanza i mobili pesanti di sabbia
 - già pesanti di sabbia sotto le stoffe accurate-
lamentavano la loro esistenza incompiuta
al suono dei tarli
 - ma erano cicale prigioniere sopra rami di lino
balconi sugli orti di sambuco e di cicoria
coll’alone del faggio spiumato a primavera


era enormemente difficile stabilire l’ora
il tempo aveva preso la rincorsa
senza scrivere una data - alcuni bagliori
erano da scordare
alcuni segni da ricordare – e le vetrine aspettavano


Le città in lutto bordate d’oro
per il loro funerale facevano un giro su se stesse
ballando dietro gli scoppi – e le grida
appena soffocate
gli strappi del silenzio i rilievi
delle antiche chiese
gli ostensori declamati dalle candele
in un capriccio di tenebra
Alla stazione il convoglio cerca di cambiare strada
inseguendo un richiamo colorato
un uccello grida non si sa dove
                                           e perché
Anche il finestrino aveva abbassato
e io dissi
vai in macchina è meglio – non poteva essere meglio
non poteva essere peggio
Quando si dice partire
la barca e la nave sono due simboli per l’acqua
come l’automobile e il treno per la terra


Cosa fai?


Fuggire staccarsi dal proprio corpo
senza rompere il cordone d’argento
rimanere col telefono alzato sulla voce che tace
e copre d’alfabeti incomprensibili
le distanze e gli amplessi


la seta del letto
portava qualche tiepida macchia
una verità durata un momento


Saluta dietro il cappello
fatti schermo delle tue ossa trasparenti
corri a Parigi la Senna e le altre cose
delle insegne e dei dépliants
accusa l’impero di Ninive
per la sorte che smantella
le certezze più decise


                                 Oh se nel Tibet
vi fosse il Lama che hai cercato
se ti conducesse nelle caverne screziate di ricchezze
di misteri di ruote della vita
per condurti all’altra sponda
alla definitiva rinascita
allora sì che il Viaggio sarebbe interessante


Dietro le vetrine le bolle di gassosa dei passanti
urtano gli oggetti senza toccarli
una musica arrotola gli uccelli in uno scialle
per rendere il veleno prezioso – infatti
nel tuo sguardo di terrori egizi
scintilla come un pigro avvertimento


Ma non è il momento di giocare


Scende la neve copriti gli occhi
arriva il fantasma di Macbeth e tu Lady
vorresti cancellare la luna.

 

 

...quanto dire che questa poesia, se pure nasce, com’è naturale, dall’intimo dello scrittore, non nasce mai dal suo io presente, non ha nulla a che fare con l’occasione quotidiana e con quelle improvvise insorgenze del sentimento che, almeno in apparenza, sono il tema di tanta lirica, è piuttosto il risultato di un recupero, d’uno scavo negli ipogei della coscienza, d’una specie di paziente e attonita archeologia della memoria che riporta alla luce, a somiglianza di frammenti arcaici, lontani antefatti sentimentali e morali che per essere stati così a lungo a giacere nell’io profondo dallo scrittore, sembrano essere trasformati in emblemi atemporali e come incrostati di significati remoti il cui valore comunicativo ci attira assai meno del loro potere di suggestione…  
          
Mario Pomilio ( 1973 )

Sablone, che è nato a Pescara nel 1935, è uno dei poeti più attivi e costanti della sua generazione. L’oro di Bisanzio è il frutto più maturo di circa venticinque anni di lavoro: quasi un poema di forte e al tempo stesso enigmatica significazione religiosa; un poema che interroga, nei secoli, la storia dell’uomo. Agostino, Tommaso, Paolo Silenziario, Borges e Hesse sono gli interlocutori impliciti e dichiarati di questo poeta itinerante che ricerca nei secoli una coerente immagine della propria stessa vita. 

Luigi Baldacci ( 1979 )


I monologhi di Sablone sono in verità una testimonianza appassionatamente, laceratamente individuale, eppure tali da suggerire una dimensione universale che il marcato accento religioso caratterizza ed esplicita. E religione vuol dire per Sablone non pacifica risoluzione e quiete nelle braccia di una verità posseduta, ma mistero - “a me / che ti conosco senza conoscerti” - e dunque speranza tutta affidata a strumenti al di là dei consueti forniti dall’esperienza delle ragioni biografiche, che sono palesemente per lui il luogo del dubbio ma insieme l’unica indicazione  di una certezza. “Solo ciò che fugge / eternamente dura”.

Giuliano Manacorda ( 1982 )  


Voglio far sapere (…) quanto la considerazione della tua opera sia andata crescendo in me dai primi un po’ sommari consensi di lettore all’interessata attenzione odierna per ciò che elaborano la tua sostanziosa cultura e la tua complessa sensibilità formale. I tuoi sono sempre ‘libri di vita’, il contrario delle correnti ipotesi strutturali e linguistiche che ci assediano, e questo mi piace. Aggiungi che le misure e le dismisure che collidendo e confricandosi accendono la tua giornata e danno qualità alla tua vita ( alla vita dei tuoi libri ) sono convincenti e molto coerenti con il nostro comune problema di certezza assoluta…
     Ti abbraccio e ti mando un augurio per l’anno nuovissimo.
Tuo

Firenze, 1.1.1987                                Mario Luzi


(…) Ma Sablone, poeta di intrepida ricerca stilistico-spirituale, non è per le soluzioni facili. Il suo muro che ogni giorno ‘assottiglia l’orizzonte / dentro la vita ‘ è qualcosa di nuovo, un simbolo che si incunea in una trama di simboli in movimento, in una specie di sacra - e laica - rappresentazione dell’anima. Più che a Montale, penserei a un Ungaretti  influenzato a sua volta da Blake. Ma Sablone non ha molte parentele accettate. Il suo discorso procede solitario. Si avverte che nei versi c’è una continua, personalissima ricerca  di saldare lirica ed etica, visionarietà e saggezza.
          
Giuseppe Conte ( 1994 )


 

 
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