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ALDO GERBINO: PREFAZIONE A "UN'OMBRA DI DIALOGO" DI GIOVANNI OCCHIPINTI

 


Il deserto non è la mia patria, ma in esso

vi è una persona cara al mio cuore.

 

 Dopo di te mi è dolce la morte, mentre essa è amara,

e non mi è dolce la vita dopo di te.
(Abu Muhammad al-Qasim at-Tamimi)


   Estrarre l’essenzialità dal dolore lo rende più denso. L’impasto drammatico, che spesso lo avvolge, quando esso diventa oggetto di racconto poetico per poi addolcirsi sul piano della rappresentazione, ne limita la carica, la vitalità, ne altera l’assorta sua natura di ombra. Montale fornisce un esempio di questo processo di riduzione attraverso la rasserenata drammaticità di “Riemersa da un’infinità di tempo” (posta nella raccolta Satura), dove, rispondendo per telefono a Celia, la filippina d’un tempo che ancora non sapeva della scomparsa che lo aveva colpito, dice: “Credo stia bene [...] forse meglio di prima”. E allo stupore commosso e imbarazzato della donna aggiunge - nella levigata asetticità del parlato - quel “cerchi d’intendere...”capace di restituire, nella sua stremata semplicità, la dimensione più sofferta dell’uomo che s’è fatta, suo malgrado, una ragione della morte. Questo convincimento montaliano affiora in tutta la sua dolente compattezza nel momento in cui afferma: “Avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento”.      Credo che Giovanni Occhipinti sia alla ricerca di questo “segno di riconoscimento”. La ricerca tenace ha avuto inizio quel ‘ventitré novembre del novantasei’, senza cedimenti, mossa da una volontà di costruire una lunga scala capace di condurlo verso quel figlio che ha avuto la sventura di precedere il padre. E ciò non poteva non avvenire che sulla scia di un crepuscolo struggente, dove i trentadue segmenti poetici di Un’ombra di dialogo appaiono fortemente sospinti da una serie incessante d’interrogazioni rivolte al figlio (perché del volto che non appare; cosa avrebbe voluto dire; come interpretare i sussulti del corpo; quale dimensione ora può essere vissuta; perché del presentimento della morte; dove potrà avvenire l’incontro futuro; quale dispersione può esserci nel baratro del coma). Interrogativi che, pur non attendendo risposte, tentano di spiegare il perché delle cose, il valore di un’ironia universale, divina, che può consentire ai figli di “depredare” la vita, quasi sospinti da un’arcana volontà di autodistruzione. Ma nello stesso tempo tentano di ridisegnare il mondo della trascendenza e, ove sia possibile, emettere quei montaliani segni di riconoscimento dove l’identità di Dio viene a configurarsi con quel “dolore del mondo” così contraddittorio, così destruente, e, contemporaneamente, così alto e purificatore.

   Il dialogo di Giovanni, poeta, amico, e soprattutto padre, lega oggi l’ombra della consistenza (ancora molecolare) della corporeità al dialogo già sospinto alla luce, e che - prima o poi - deve conquistare il lenimento del suo dolore pertinace. Quell’ombra che (come nel bel libro Paesaggio con figura di Ruggero Savinio) quando vi si guarda dentro mostra “un territorio grandissimo, territorio dell’oscurità contrapposta alla luce, imago spirituale, doppio oscuro dei viventi”. E aggiunge, in quel suo stimolante reticolo interiore, come tutto quello “che viene sottratto è ombra,ma anche anima, il doppio, il kha degli Egizi, che accompagna la nostra vita corporale ed èdestinato a prolungarsi di là, dove non saremo che ombre”. La sottrazione dell’ombra, del confine, che accompagna la nostra fisicità, se dal punto di vista pittorico pone problematiche di ordine estetico ben sottolineate da questo affascinante artista (figlio di Alberto), impone in altri specifici l’accumulo d’una valenza nuova, che soltanto l’amore o la poesia può cogliere con forza diradandola dall’enfasi. In questa proiezione il mio compagno di versi (non è, certo, cosa di poco conto) getta la sua àncora, affonda qua e là il suo scandaglio, ricostruisce il mantello intellettuale, fonico, visivo, interiore, del figlio scomparso. Di questo Massimo così tormentato, e pur così vivo; di questo figlio costretto sin dalla primissima infanzia ai distacchi, alle peregrinazioni ospedaliere, alle rieducazioni, al difficile inserimento in una realtà che esclude per ignoranza, ingordigia di normalità, per povertà morale: per tutto questo il padre ne sta invocando un rapido confronto. Il figlio che manca all’amico, aggiunge ulteriore mancanza; nel senso che la parte d’ombra dell’amico va via verso la sua onda di effimera trasparenza, si condensa in una realtà a lui più consona, sfugge, si apparta.
In ciò tutto il conforto della parola, dall’alito caldo di una vita transitoria e partecipe, hanno (si spera) il loro peso, proprio nel dar consistenza all’ombra, alla parola, agli affetti, agli amori. “La tua mattina non ebbe sera”, dice, nel suo struggente accoramento, at- Tamimi - uno degli ultimi cantori della Sicilia musulmana - al figlio rapito dalla morte. E tutto il mondo, la vita stessa, egli vede precipitare nella disperazione. Ma a questa mattina senza sera, Occhipinti impone la sua ragione di speranza, il tentativo di partecipare alla zona d’ombra; di capire, di essere folgorato dalla presenza di Dio, di cui comprende l’assolutezza imponente per quel partecipare all’incommensurabile dolore universale. Alla usura della vita, all’àlgido cospetto del “vetro opaco” degli occhi, alla destruente “fissità indifferente e lontana” della morte, dell’agonia solitaria, all’apparente non partecipazione al dolore provocato, al dialogo tanto richiesto dagli affetti più profondi, il gesto del padre diventa segno inesorabile di ferita, strazio non colmabile, ma verificabile sul piano dell’accettazione metafisica, altrimenti non avvertita nella sua drammatica pienezza.

C’è da osservare, sul piano della scrittura (in questo caso valutato come nota a margine), che l’asciuttezza preponderante del verso riduce tutto ad un tremore dialogico, attraverso il quale si acuisce il dettato emotivo e pur lo si placa, lo si sfronda, dal pericolo della ridondanza. Così il tracciante del colloquio, così caro ad un poeta della tempra di Elio Filippo Accrocca, anch’egli tragicamente privato dell’amore filiale, si dispone in ognuno su quel versante pedagogico prossimo a Cattafi. Infatti quest’ultimo accettava - così scrive per Oltre l’omega Giuseppe Miligi - “l’estremo sopruso della morte ed era già nella dimensione della Grazia”. Su questa soglia ha inizio questo nuovo eternante dialogo tra padre e figlio, mentre l’ombra nutre i loro occhi, i loro animi, si distende tra le pieghe iblee come uno spiro, un sussurro, un’eco capace di legare il cielo alla terra..


Aldo Gerbino
Prefazione a "Un’ombra di dialogo" di Giovanni Occhipinti, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1997.

 

 
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