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ARTURO SCHWARZ: LA POESIA DI GIORGIO MANNACIO

 

Una parola inglese, snapshot – foto istantanea -, mi sembra appropriata per definire questi brevi componimenti poetici di Giorgio Mannacio. Snapshot di emozioni, di sentimenti, di momenti di vita che, nonostante la loro natura intima e soggettiva, raggiungono una dimensione oggettiva e quindi universale. Mannacio eccelle nel trasformare il privato in sociale facendogli assumere una valenza archetipica. Questa valenza è il riflesso d’una esigenza interiore: la psiche ha le proprie regole che la mente non conosce. La pulsione espressiva del nostro io più profondo determina sempre – e all’insaputa del poeta – la struttura del testo. Gustave Flaubert ricordava che non è l’autore a scegliere il tema, ma piuttosto il tema che si impone allo scrivente. Un testo è poetico nella misura in cui obbedisce a tale imperativo. Mannacio ha fatto suo il consiglio che Polonius dà a suo figlio: “Con te stesso sii sincero, e come alla notte segue il giorno, non potrai essere falso con nessuno” (Amleto). Anche per questo motivo la sua poesia esprime una carica emotiva che diventa estetica se è vero che la verità è la bellezza così come la bellezza è verità, come sostiene anche John Keats.
   Mannacio conosce bene sia la verità trasmutativa  della parola che diventa poesia, sia la valenza creativa del logos: “Ti ho chiamato rondine e ridevi / correndo, alta nel cuore, / perché riconoscevi / in questo nome uno dei tanti nomi / - l’effimero, il celeste, il più remoto - / quello che per miracolo trasforma / nel fuoco del momento il tempo ignoto” (Metamorfosi e rivelazione). Egli scrive anche per conoscere se stesso: “così un pensiero lo sfiora / in questo precipitare di un inizio immanente / che è subito passato e conoscenza, / un detto memorabile da scrivere sul taccuino: / se non ci  fosse il tempo sarei innocente” (Fine anno). Questo riconoscere che “il poeta è una stella cadente”  capisce che suo è il destino di illuminarci con i suoi versi: “Sortilegio della parola, fiamma breve / e, prima e dopo, niente” (Meteorite).
La poesia – come l’arte e l’amore – è uno strumento di conoscenza. Per averne conferma basta tornare al significato primordiale della parola greca poietès che significa sia poeta e artista che operatore: homo faber (in greco, come in sanscrito colui che fa; in termini heideggeriani, colui che “fa – venire – allaluce”). L’homo faber era proprio colui che svolgeva la funzione dello scienziato. Un classico esempio del doppio valore semantico di poietès è l’auto-designazione dell’alchimista che riteneva d’essere operatore-artista (l’alchimia era nota come Ars magna) e quindi poeta. L’alchimia ellenistica, ricordiamolo, era una disciplina scientifica che aveva per scopo la conoscenza del Sé e nulla aveva a che fare con la trasmutazione del piombo in oro. Le metafore alchemiche, per lo stato d’ignoranza, il piombo e per la conoscenza aurea, l’oro (aurea apprehensio) furono interpretate letteralmente soltanto con la nascita dell’alchimia medioevale cristiana e mussulmana. Mettendo in epigrafe alla poesia Metamorfosi e rivelazione una sentenza del poeta-alchimista ducentesco Ramòn Llull, Mannacio dimostra d’essere ben conscio di questi fatti.
Sin dall’antichità classica, il poeta è stato considerato il più autentico interprete e rivelatore della natura quando questa era pensata come un “poema divino” (Filone, Quod deterius potiori insidiari soleat, * 124-125). Un concetto anticipato anche dai sofisti di Plotino che parlavano di un “poema dell’universo”; il neoplatonico Proco chiamava Apollo (che personificava la luce della conoscenza) il Grande Poeta dell’Universo. Alla parola del poeta era pure conferita una facoltà creativa, come affermava l’Agni Purana per il quale il poeta ha il compito di reinventare l’universo. Inventiva confermata anche, a livello semantico, dall’illustre linguista Emile Benveniste, che, analizzando il verbo greco kràino, ha dimostrato che questo significa “far venire all’esistenza”. Nel poema di Omero dedicato a Ermete è il canto di quest’ultimo che “crea gli dèi immortali e la terra tenebrosa”. Mannacio affida questo potere conoscitivo e demiurgico al simbolo stesso dell’innocenza, una bambina.
“Gli oceani, i continenti / le isole alla deriva / iscritti in queste bolle iridescenti / si sciolgono nella  schiuma / di un refolo di vento. / Tanto leggeri, tanto inconsistenti 7 Che la bambina con un solo dito / li solleva nell’aria a incantamento”Giardini celesti.).
Un filo rosso di rimandi ai grandi iniziati-iniziatori corre lungo la scrittura di Mannacio, che, volente o nolente, rimane fedele al ruolo del poeta veggente e filosofo. Non a caso egli pone in epigrafe alla sua raccolta queste parole di Empedocle: “E’ in mezzo porterò questo tema degli elementi non generati: il fuoco, l’acqua, la terra e l’immenso culmine dell’aria”. Aleggia nei versi di Mannacio anche lo spirito solistico di Eraclito: “Dalla terra, l’acqua; dall’acqua, l’aria; dall’aria, il fuoco” (Diels 76), che risuona in un testo denso intitolato Risveglio: “Trasmigrando da seme a fiore, / da specchio d’acqua a nube / ogni forma si perde nell’ebbrezza / della smemoratezza”. Ritroviamo ancora Eraclito – quando affermava “ Il Sole ha la larghezza di piede umano” (Diels 3) – in  Mari del Nord: Il sole, in fondo, non più grande di questa / sfera di posidonia rincorsa da piedi nudi”.
Per continuare con la valenza iniziatica della poesia, mi preme di ricordare la dimensione etica che dovrebbe assumere la conoscenza. Lo ricorda, ad esempio, Marcello Cini, docente di Fisica Quantistica: “Da quando Adamo ed Eva assaggiarono il frutto proibito, conoscenza e responsabilità sono diventati inseparabili”.  Così Mannacio non teme di seminare, lungo i suoi versi, precetti morali: “Non l’oro ti dà la forza e la potenza / di curvare ora per ora l’arco / breve di questa futile, disarmata esistenza” ( L’età del coraggio).
In origine, poesia e scienza erano una sola disciplina. Un caso paradigmatico è quello dei poemi cosmogonici dei presocratici per i quali il poema era un microcosmo che rifletteva il macrocosmo: l’Universo. Tra i componimenti di questo tipo basti citare il De rerum natura di Lucrezio e le Metamorfosi di Ovidio. Porfirio esprime una convinzione largamente diffusa quando affermava, nel suo commento alla Repubblica di Platone, che la scienza della natura e la poesia sono indissolubilmente legate.
Questo concetto è sopravvissuto sin dopo il Rinascimento con il Naturphilosoph. Nei tempi moderni, Schiller, nel suo mirabile poema Gli Dei della Grecia, non dice nulla di diverso quando scrive che “il velo magico della poesia / sventolava , pieno di grazia, sulla verità”. In tempi più recenti, nel 1960, Saint John Perse, nel suo discorso pronunciato quando gli fu conferito il premio Nobel per la poesia, affermò che “inizialmente, la stessa funzione si esercita nell’impresa dello scienziato e del poeta”. Heidegger, invece, preconizza la necessità di tornare alla pòieis greca in quanto può “svelare” la realtà e farla “venire - alla luce”. Non si riporta indietro l’arco teso / da falsa primavera”.
Paracelo affermava che “la ragione principale della guarigione è l’amore”. Ora ascoltare questi versi di Mannacio: “Un gesto breve: accostò la sua tempia / alla mia, per sentire / se avessi la febbre e fui subito certo  che in quel momento non potevo morire. // La medicina è questa: una pazienza / insonne, trepida, quieta / vicino a chi ha perduto la speranza / di rivedere ancora la cometa”.
La responsabilità del poeta è pari a quella dello scienziato, e viceversa. Entrambi devono essere guidati dall’imperativo categorico kantiano. Lo sottolinea pure Roald Hoffman, premio Nobel per la chimica, quando afferma che “l’atto della creazione è incompleto senza giudizio morale”. Penso che Mannacio creda fermamente, come me, che la nostra civiltà sarà sulla via della salvezza solo quando l’amore e la poesia avranno sconfitto l’odio e il sordido pragmatismo. E’ per questo che riconosco in lui un fratello ideale.


Arturo Schwarz

 

 
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