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IGNAZIO APOLLONI

 

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"Immersione nell'unidimensionale; l'atemporalità deriva dalla dilatazione spaziale. La persistenza nell'abitare il sogno denota una fuga dalla realtà quale rivelazione di aspetti negativi, eccedenti, della vita. Dunque fuga come realtà e non come somatizzazione di profondo disagio psicologico. Dal metaforico infinito umano emerge la forza della ricerca letteraria dell'autore".

Vira Fabra

 


PLUM CAKE
A modo di introduzione


Scrittore di contes philosophiques (del genere hard, mai pubblicati). Sornione. Diffidente nei confronti della realtà  (transeunte, destinata a mutare). Leggendario il suo legarsi alla leggenda più che al mito. Ha in uggia la poesia di parola. Predilige l’immagine al suono. Dei rumori dice di apprezzare quelli soft; dei futuristi invece quelli a mitraglia. Questo è Ignazio Apolloni, e non solo.
Sono andato a cercarlo nella sua tana per intervistarlo.
Quattro metri per tre. Alta una spanna. Profumo di rosa canina. Avvolto in un manto di stelle mi ha fatto entrare, sedere (per terra).  Soddisfatta la sa curiosità  sul chi ero ha cominciato a rispondere a domande che non gli avevo posto. Ne è venuto fuori un quadretto niente male.
“La realtà è una truffa”, ha esordito (citando Luigi Malerba, a sua volta chiosato da Paolo Mauri in una celebre recensione del Circolo di Granada). I nostri occhi vedono quello che sanno. Le orecchie  ciò che hanno già udito. Lo hanno scritto le gazzette. E’ scritto sui muri con caratteri graffiti. In quanto amico di Basquiat l’ho assistito (fino alla fine). Stava disegnando il mio volto su una delle carrozze (o erano dei vagoni?) della metropolitana di New York allorché è finito stramazzato al suolo: fulminato da un corto circuito ad alta tensione.
Il Basquiat, non meno che l’Haring, era portato ad esagerare. Tendeva al sublime tanto quanto io tendo all’irreale.
Chi ha disegnati i graffiti che hanno fin qui tracciato il mio itinerario esistenziale; e chi evidenziato le stimmate che ricoprono il corpo della mia scrittura? Guardi, non c’era volta che venendo a trovarmi un artista non mi facesse mettere in posa; mi mettesse in mano una rosa; facesse stagliare il mio profilo contro il bianco di un lenzuolo per renderlo cereo. Solo una volta un certo Pietro Cansagra dovendo dipingere una stella invece del bianco usò il ceruleo. L’effetto fu esilarante. Chi rideva di qua e chi di là. Chi rideva perfino a crepapelle. Chi tratteneva con le mani le viscere per evitare che gli uscissero dalla sede naturale (leggi la pancia). In breve: divenni più celebre della stessa Fornarina. I miei schizzi sono parte al Louvre e parte conservati nelle casseforti del Fondo Monetario per l’Investimento nelle arti.
Non ci fu verso (per restare nel tema della poesia); non ci fu scampo. In quello spazio angusto (quattro per tre, altezza una spanna) il già detto Apolloni non la finiva di stupirmi. Facevo appena in tempo a chiedergli “perché la leggenda e non il mito visto che vive in un’isola in cui con il mito si convive” e lui a spiegarmi in poche parole che un Ercole può diventare una statua; Ulisse una dozzina di capolavori, a cominciare da Gilberte. Provavo a domandargli chi fosse questa Gilberte e lui a darmi del miscredente e dell’ignorante.
Non che la miscredenza ci stesse bene ma per lui tutto fa brodo. Ed infatti, mentre l’intervista procedeva, sulla stufa ci stava a bollire un galletto. A sentire lui gliel’avevano regalato dodici galline stufe di doversi spartire i favori di un animale insensibile alla bellezza. Sembra che non avesse fatto la scelta giusta: e cioè quella di avere una favorita e tante concubine. Per lui l’una valeva l’altra.
Non c’era proprio niente che gli stesse bene a questo signore; nulla che potesse ricondurlo alla realtà. In verità in uno spazio striminzito sarebbe stato impossibile misurarsi con la distanza tra terra e il cielo, o tra la carne e lo spirito. Sarà per lo spirito appena accennato, sarà perché il tizio godeva fama di essere spiritoso cominciò con una tiritera che se Ponchielli fosse stato vivo altro che Gioconda. Disse intanto delle sue preferenze per l’incomprensibile (l’arte astratta); proseguì con  quelle per l’immarcescibile (e qui gli riuscì più difficile spiegarlo). Non avrebbe smesso più se non fosse che bussarono alla porta.
Si trattava di una certa Alice. Disse di essere all’inseguimento di un coniglio. Se l’avevamo visto? No, che non l’avevamo visto. Se pure avesse voluto avremmo potuto darle una mano, persino prestarle il nostro fiuto. Ovvio che il fiuto sarebbe stato del predetto Apolloni; a me intervistatrice sarebbe rimasto nient’altro che un palmo di naso.
Fu un’autentica fortuna l’apparizione dell’Alice (per l’occasione accompagnata dal suo autore: un curato di campagna portato però più a ritrarre fanciulle in fiore che nature morte). Privato ormai del suo fiuto; non avendo mai avuto una buona vista; essendo però un tantino sordo alle emozioni, si diede a sproloquiare. Eccolo ora parlare di storie patafisiche e pantagrueliche come se si trattasse di pane per i miei denti. Per la verità a Pantagruele ci sarei potuta arrivare perché avevo letto il Cyrano di Rostand; Quanto all’assurdo di ritenere la patafisica qualcosa di interessante l’impresa sarebbe stata più ardua. Ostavano: l’amore per la realtà e il favore che godeva la realtà da queste parti (che gli inibivano di far propria persino la propria realtà); l’assillante presenza del mito e la quasi nessuna per la leggenda. Mi sorprese a questo punto l’errore. Non so se l’abbia fatto apposta o se si sia trattato di difficoltà di pronuncia. Disse legenda e non leggenda. Offrendomi così il destro per la prosecuzione dell’intervista.
Si soffocava. In quei pochi metri cubi che prima contenevano l’intervistato e la scocciatrice adesso ci sono non soltanto il coniglio –alla cui caccia stanno andando Lewis Carrol e l’Alice – ma altresì più parole che fatti. Volano le parole, eccòme se volavano: e io cerco di acciuffarle. Vola pure qualche parolaccia ma io evito prudenzialmente di scriverla nel taccuino. Di appunti ne ho già a josa. Potrei dunque dire basta e andar via. E invece non se ne parla proprio. Preso dallo sproloquio l’Apolloni non la finisce più; ha chiuso a chiave la porta; tappato le finestre; spento il fuoco nel camino; fulminato con uno sguardo le lampade perché il resto dell’incontro avvenga al buio. Perché? Basta  avere un pizzico di fantasia perché tutto sia chiaro. Non vuole costui che io prenda appunti. Vuole cioè che mandi tutto a memoria. Ma se è così potrei commettere qualche errore di trascrizione (a cose fatte). Ebbene, questo è ciò che vuole quella specie di Mefistofele.
Andammo avanti per ore, non so quante. Io a fare domande, lui ad eluderle. Fossi riuscita ad evadere da quella sorta  di trappola in cui mi era cacciata; avessi riacquistato la mia libertà sarei stata felice(finalmente felice una buona volta). Niente da gfare invece. Mi tiene prigioniera, mi tiene in pugno. Vuole per forza convincermi che viviamo in epoca di Singlossia, e nella singlossia vede il primato dell’immagine sulla parola. In verità fin qui  mi stava dando una bella immagine di se: un troglodita assurto alla notorietà per essersi rinchiuso dentro uno spazio limitato (un quarto per tre) ed avere elaborato una teoria che partendo da zero (zero in condotta) tocchi il vertice per poi ridiscendere alla base. Fu a quest punto che l’Apolloni divenne supplice (bello il supplice). Mi chiese il permesso di spiegarsi meglio; dichiarare il senso di una vita spesa a potenziare la fantasia con il mettere in ombra la realtà. Permesso accordato.
Mi parlò di un suo recente libro di racconti, dal titolo veramente strano: Dalla parte del mare. Spiegò che un’isola si presta meglio ad essere osservata (e con essa i suoi abitati, specialmente quelli in odore di sacralità: niente a che vedere  con la sacertà) se vista da notevole distanza. E’ per questo che sapeva quasi tutto dei canguri, molto meglio degli stessi australiani; per il medesimo motivo riusciva a trovare le ragioni riposte nell’arrendevolezza degli indiani d’America. Chiesi: quelli del Nord o quelli del Sud? Ebbe un attimo di perplessità. Si confuse. Arrossì ( e non chiedetemi come feci a notarlo visto che stavamo dialogando stando completamente al buio). Questa non fu l’unica incongruenza. Ma tant’è, la fantasia può fare miracoli.
Ci lasciammo con l’intesa di rivederci non appena fosse apparso il suo prossimo romanzo. Mi descrisse alcune parti di questo nuovo parto (pare che dovesse essere un parto gemellare ma per ragioni di convenienza avrebbe visto la luce soltanto Ruby la rossa). Di che si tratta? Della solita mattata, creata per dare un senso a qualcosa che altrimenti non ne avrebbe. Fu qui che mi sorprese. Declamò a quel punto dei versi in prosa. Mi pregò di trascriverli (di necessità dovette accendere le luci – non proprio quelle della ribalta). Parlavano di letteratura come se essa fosse preposta a dare un senso alla vita, purché però fondata più sulla fantasia che non su ciò che chiamiamo reale.


(Estratto di una intervista del 3.07.2002 apparsa sul “New York Times”, tradotta da Ignazio Apolloni)

 
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