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TERESA MARINIELLO: L'USCIO D'OMBRA

 

L’uscio d’ombra.


Seguii il passo di mia madre, ora cauto, oltre l'uscio d'ombra.
Il grande cortile era immerso nel silenzio tiepido dell’estate che avanzava: i sacchi di grano erano rimasti ammassati in un angolo  e dal giorno precedente nessun uomo si era affaccendato a caricarli sul grande camion rosso, il vociare della numerosa famiglia che viveva nei bassi si era distorto in un mugghio di mare sospeso nella controra; persino la “capera”, come tutti la chiamavano, non spiava la vita dietro  le sue tendine azzurre.
Era una donna questa dal volto consumato dalle passioni degli altri, la cuffia nera che portava per nascondere i pochi capelli le rendeva lo sguardo più cupo, e non si riusciva a indovinare in quel nero un sorriso d’adolescenza rimasto impigliato; forse da giovane aveva fatto veramente la “capera”,cioè la parrucchiera a domicilio, sentendo e riportando le chiacchiere del vicinato, forse aveva avuto famiglia.
L’ ombra densa del corridoio mi sferzò gli occhi, non riuscii a distinguere il piccolo divano di vimini con i suoi cuscini ricamati a punto croce e neanche le grandi fotografie in cornici scure appese alle pareti che tanto mi avevano incuriosito l’altra volta: nella prima un ufficiale dai baffi sottilissimi si mostrava nella sua uniforme appoggiandosi a una colonnina, nella seconda una anziana donna con guanti e borsetta in grembo sedeva soddisfatta.
Mia madre mi aveva spiegato che erano stati marito e moglie, che adesso erano morti e che erano volati in cielo; ma era difficile vedere quei due tra le nuvole, appesantiti da spadini e borsette, e ancora di più vederli sposi ,così distanti d’età come erano.
Appena gli occhi si furono abituati vidi molte persone, alcune appoggiate lungo le pareti, altre sedute, che ci guardavano in silenzio; fu allora che mia madre mi prese la mano, non so se per farmi coraggio o per riceverne.
Entrammo nella cucina, un uomo solo sedeva al tavolo.Rigirava tra le mani un piccolo garofano giallo, guardando con attenzione i petali leggermente striati di rosso, sembrava accarezzarlo come fosse un piccolo animale, con un gesto lento, contenuto.
Conoscevo quell’uomo, spesso lo incontravo lungo le scale con il suo bambino per mano, e aveva  sempre un sorriso per me o addirittura un piccolo gioco, come quello di tenere tra le dita una moneta per poi farla scomparire guardando soddisfatto il nostro stupore da sotto l’ala del suo cappello scuro; altre volte appoggiava invece la mano minuta sui miei libri di scuola e poi mi invitava a sentire il calore che restava come magicamente impresso.
Quel giorno non mi guardò nemmeno. Quasi un sussurro il suo: si, è così, alla parola che  mia madre pronunciò : condoglianze, e poi subito, i suoi occhi più scuri per il dolore tornarono al piccolo fiore. E fu allora che cominciai a sentire la morte, la sua presenza vaga e misteriosa, come un ondeggiamento, un rovesciarsi di stelle, che quasi mi accecarono, bianche, minute, tante, quando le vidi.
Andrea era disteso su un letto di confetti. Fermo, composto, pettinato, ordinato, come mai lo avevo visto. Pallido.
Vicino al bianco il nero della madre, prosciugata la voce e le labbra, teneva accostata la mano a quella di Andrea e piano si cullava.
La sua voce gli altri giorni l’avevo sentita calda e modulata nel canto  arrivare fino all’altro lato del cortile, sul mio terrazzo, rimbalzare tra i miei giochi, e allora la guardavo mentre accudiva i suoi gerani, o sedeva con un lavoro di cucito.
E l’ ondeggiare divenne un vortice, di quelli piccoli che si formano ai lati delle strade quando piove tanto, e ricordai la barchetta di carta che trasportava il soldatino di piombo: ecco la corrente la trascina giù, nelle fogne, e un grosso topo curioso la segue mentre il soldatino resta lì impettito col suo fucile in mano; e poi ancora il fuoco del caminetto e la ballerina leggera che gli si posa accanto.
Fui io questa volta a tirare la mano di mia madre, a portarci fuori.
Non ebbi neanche bisogno di chiederle il perché di tanti confetti, perché ero riuscita a prenderne uno, e sulla mia lingua si scioglieva la sua dolcezza.

Teresa Mariniello
    

 
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