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CARMELO MEZZASALMA: L'ANIMA E IL GRIDO

 

 

L’anima e il grido


All’inizio di Timore e tremore Kierkegaard tesse il suo celebre Elogio di Abramo. “ Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il più grande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è la follia, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l’amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all’assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu per fede straniero in terra promessa, ove nulla gli ricordava quel che egli amava, mentre la novità di tutte le cose gli poneva in cuore la tentazione di un doloroso rimpianto. Eppure, era l’eletto di Dio, in lui il signore s’era compiaciuto “.
Così, attraverso la sua finissima prosa, il grande pensatore danese ci ha dato una pagina la cui forza dirompente sembra scaturita direttamente dal dilemma posto dal libro della Genesi: chi è questo Dio che osa chiedere ad Abramo di sacrificare Isacco, il figlio della promessa? Come mai Dio, dopo essere andato incontro ai desideri di Abramo - la promessa di una terra e di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo -, fa, per così dire, un rapido voltafaccia nei confronti di Abramo con la richiesta di sacrificargli Isacco? Di fatto, il Dio della Sacra Scrittura sovverte tutte le aspettative umane e Abramo conoscerà un’avventura straordinaria in cui l’abbandono alla fede si unisce alle miserie della sua vita di uomo, ai suoi calcoli e alle sue strategie. Leggere un testo non è mai un atto oggettivo. Ogni lettore si accosta al testo a partire dalla sua ottica, dalla sua cultura e sensibilità, dalla sua esperienza e dalle sue delusioni. Il medesimo testo viene così letto da lettori diversi e constatiamo che gli stessi lettori, prendendo il testo in circostanze differenti, sperimenteranno un tipo nuovo di lettura. Se ciò è vero per qualsiasi testo, è soprattutto vero per la lettura dei testi biblici. Ecco perché Northrop Frye ha potuto dire che la Bibbia è il “ grande codice “ della letteratura occidentale, nel caso di Abramo, possiamo dire che la sua storia è una storia ancora in corso per migliaia di esseri umani alle prese con il mistero di Dio, dalla vita e della morte. Infatti, quando la sventura, la disgrazia, la morte entrano nella nostra vita o nella nostra famiglia è allora che la vicenda di Abramo, come aveva definito Kierkegaard, diventa d’improvviso la nostra personale vicenda con tutto il peso di quel tremendo interrogativo: ma che cosa ho fatto a Dio perché mi punisca così? Anche il romanzo di Giovanni Occhipinti Giustificati nel suo sangue ( Marsilio 2000 ) respira a pieni polmoni, per così dire, questa drammatica e difficile domanda. Il protagonista, Giulio, inviato speciale come cronista di politica estera, di ritorno dal Medio Oriente, ricade nel dolore devastante che gli fa rivivere il dramma della morte del proprio figlio. Alle immagini vivide di quella guerra - ahimè quanto ancora cronaca dei nostri giorni! - che oppongono ebrei e musulmani nella terra della Promessa, si sostituisce, quasi in un tacito delirio o in una indicibile dissolvenza tra sogno e realtà, la ferita della sua vita di padre che ha conosciuto lo “ strappo “ di una morte assurda. Che fare? A chi rivolgersi mentre quel fittissimo dolore raggiunge ogni angolo della carne e del sangue? Sorge così, dal grido dell’anima, la figura di Abramo in cammino verso il  Monte Moria per adempiere il tragico comando di Dio. Il racconto di Giovanni Occhipinti, allora, si svolge nell’arco di quei tre giorni in cui il dolore e il mistero di Dio s’intrecciano a tal punto che l’uno si riflette sull’altro, quasi a dire una storia d’amore sempre inedita e sconosciuta alle mappe della psicologia: “ Abramo aveva mantenuto la sua fede - recita Giustificati nel suo sangue - nel momento estremo della tragedia, non negando a Dio l’olocausto che gli veniva chiesto. Era stato proprio questo il suo grande vantaggio, secondo Giulio. Che invece, uomo di fede, lo era diventato nel momento in cui perdeva il figlio. Da ribelle, si piegava alla grazia della fede. Viveva il sollievo della sottomissione a Lui “.
Così, Giustificati nel suo sangue di Giovanni Occhipinti si conferma come un racconto davvero religioso e cristiano poiché al tema della colpa e del castigo si sostituisce, lentamente ma decisamente, il sopraggiungere della misericordia e della redenzione, perfino sullo sfondo di tutto il dolore del mondo simboleggiato nella drammatica lotta tra ebrei e musulmani in Palestina. Scritto in una prosa bellissima e sorvegliata, percorsa da una autentica forza morale e spirituale, il romanzo di Occhipinti è più che un romanzo: è una riflessione profonda sul dolore, sulla vita, sulla morte, ma intorno a cui si stende tutto il peso di quel Mistero di Dio, del Dio crocifisso e risorto, che la migliore arte dell’occidente, dalla musica alla pittura, non ha mai cessato di scandagliare e di testimoniare. Un romanzo, in altre parole, che resterà vivissimo nella nostra memoria. Nonostante il diluvio di romanzi di evasione che ci sovrastano. Diceva Boine che la speranza e la fede sono, contro il dolore della vita, speranza e fede nella solidità dello spirito, quasi a dire che sono la certezza di quella sicurezza umana nella propria storia e nel proprio vissuto. In questo senso, Giustificati nel suo sangue fa un curioso effetto: sebbene scritto in prima persona, riflette piuttosto la terza persona e cioè la figura del figlio perduto che, a sua volta, riflette Abramo, Dio. Così, nonostante lo strappo, il figlio vive negli interrogativi e nella fede del padre, pagina dopo pagina, momento dopo momento, quasi a dire e a ripetere che, dopo tutto, una storia viva è stata vissuta e che niente potrà cancellarla. Paradossalmente, amore umano e amore divino sembrano incontrarsi nel punto estremo di una rottura irrimediabile, di  un dolore senza fine, ma ciò che vince su tutto è soltanto l’amore “ forte come la morte “, a dire del Cantico dei Cantici. Si, Giustificati nel suo sangue di Giovanni Occhipinti, alla resa dei conti, è solo un romanzo d’amore poiché Dio non può regnare in noi senza di noi: Dio è amore, e l’amore non può che essere ricevuto dall’amore. Allora si comprende perché l’identità profonda dell’uomo ha la sua sorgente in un abisso: il destino di Dio si gioca nel nostro, mentre il nostro si gioca in quello di Dio.

Carmelo Mezzasalma

 
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