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SCANDALIATO ANGELA

 


INTERVENTO TENUTO ALLA LIBRERIA BROADWAY
DI PALERMO SU “GILBERTE”


Quando ho iniziato la lettura del libro pensavo di procedere nella mia relazione ordinatamente, per temi, nuclei, problemi, ma mi sono subito accorta di tradire lo spirito dell’opera e del suo autore per cui mi sia concesso di procedere in questo excursus su Gilberte per suggestioni, frammenti e seguendo l’occhio del fotografo puntato a catturare spezzoni di realtà, a regolare il tempo secondo l’intensità degli attimi e a cogliere gli scarti di cui parla Adorno, le ambiguità, ma anche di seguire le libere associazioni suggeritemi dalla lettura del testo. Non dico niente di nuovo se sottolineo che Gilberte è un’opera aperta che lascia spazio all’interprete coinvolgendolo e lasciandogli la possibilità di dare alle immagini e alle cose significato diverso da quello consueto, di interrompere i ritmi di un tempo che non conosce successioni ma interruzioni.
Ad un certo punto mi sono chiesta cosa può legare uno scrittore come Apolloni, che si esercita attraverso spericolati calembours, e sembra dare priorità alla dimensione del divertissement, alla cultura ebraica fino a creare un personaggio come Gilberte, una donna di “vaga ascendenza ebraica” secondo quanto lui stesso dice. La mia risposta è stata: il linguaggio che nell’ebraismo è inteso come erranza. Ed infatti nel romanzo non vi sono personaggi e neppure Gilberte lo è, trattandosi piuttosto di una sorta di Golem, evocato dall’autore nel suo labirintico percorso come sua interlocutrice, come suo Alter Ego, simbolo polisemico di erranza esistenziale, artistica, linguistica senza tuttavia venature tragiche; e ciò perché questo sarebbe contrario a ogni intendimento dello scrittore il quale tratta il tema della diversità come espressione letteraria di paradossalità, in una realtà, una storia che tende a rimuoverne la presenza. La scrittura dunque deve aprire gli accessi, non negarli. “Cos’è la scrittura se non una traccia della vita, un dedalo di viuzze in cui facciamo scorrere la nostra immaginazione” si scrive a un certo punto nel testo.
Gilberte è “la donna ebraica portatrice di una moltitudine di linguaggi”. Gilberte si porta dietro i suoi libri sacri come dei totem, cerca i suoi Lari, la sua identità dispersa, lo scrittore la insegue con una sottile nostalgia di radicamento, nonostante il piacere ostentato della erranza. Il narratore fotografo sembra fermare le apparenze ma insieme erra alla ricerca non della Ragione, ma delle ragioni, quelle delle minoranze.
In questa sorta di diaspora letteraria che seleziona gli elementi paradossali e ne fa materia e stile letterario, Gilberte – ripeto – questa specie di Golem, simboleggia una condizione esistenziale, di pensiero e anche uno stile, ed esprime uno dei temi fondamentali dell’ebraismo: la dialettica tra assimilazione e identità, l’assenza di definizione. “Nessun altro popolo sembrava preoccuparsi molto di dare quella definizione o forse più saggiamente aveva deciso di viverne senza”.
Con Gilberte Apolloni, restituisce alla parola esplorata nelle sue infinite valenze tutta la sua potenzialità, attraversandone tutte le possibilità di comunicazione. Egli spiazza continuamente il povero lettore aduso a cercare un centro, un riferimento, lo depista costringendolo a seguire le sue divagazioni, costringendolo ad essere “nuvola”, lo scuote dal suo torpore intellettuale. Anche se per percorsi tortuosi, Gilberte e il suo autore vagano alla ricerca di una pienezza dell’essere irraggiungibile, come l’ebreo della diaspora costretto a inventarsi una patria che non esiste. Per una ebrea come Gilberte la vita è un metaforico viaggio, percorso, passaggio, realtà a frammenti senza res (substantia), proiezione senza continuità e senza linearità verso un futuro come ritorno al passato. Come in André Neher nell’ebraismo il passato è davanti e il futuro dietro all’uomo perché la domanda del presente sorge dalle radici storiche e contemporaneamente dall’orientamento in prospettiva futura. L’ebreo ha un’indifferenza ai luoghi fisici, colti attraverso fotogrammi, flash, un solo luogo geografico è reale, metafisico, luogo dell’origine, della substantia, la Palestina, Gerusalemme. La religio è il filo di Arianna in un labirintico percorso, nell’ebraismo c’è sempre un bisogno di fuga, verso il luogo della res quasi a ricomporre quei frammenti di cui è costituita l’essenza di un ebreo della diaspora.
L’autore in quest’opera tende non al non sense ma alla ricerca di un sovrappiù di senso che la parola scritta spesso non rende e che renderebbe la parola orale (come la Bibbia scritta e quella orale); nell’ebraismo c’è sempre un problema di linguaggio, di ermeneutica. L’autore sente che il mondo è un testo che si può ricreare interpretandolo o aggiungendo sempre qualcosa in una sorta di superfetazione della parola. Per gli ebrei il mondo è la Torah di cui Lévinas sottolinea la inesauribilità di senso. V’è un rapporto tra comprensione e interpretazione fondativo della tradizione orale secondo la quale il Libro contiene più di quanto non sia espresso nello scritto in senso letterale.
Così è il mondo per Apolloni, non è insignificante ma carico di significati sempre da rincorrere all’infinito. Si parte per tornare e arricchire in un heideggeriano circolo ermeneutico o se vogliamo ricoeriano, per quella circolarità tra il lettore e il testo secondo cui il testo creerebbe l’uomo, e viceversa l’uomo il testo, in virtù del legame che esiste tra immaginazione e innovazione semantica in presenza del linguaggio metaforico.
A questo punto io, fruitrice dell’opera, ho scelto i miei gradi di avvicinamento, la mia scala di riferimento. Ho pensato ad Andrè Neher, all’esilio della parola, all’esodo del soggetto da sé anche se non a quella dimensione del sacro che egli ha in comune con Buber, Lévinas: non al Neher le cui riflessioni approdano ad esiti cupi. Apolloni sembra piuttosto aderire a quella forma di ebraismo che ha fatto dire all’editore ebreo Daniel Vogelman “l’ebreo è fatto per la gioia e la gioia per l’ebreo, anche se non sempre s’incontrano”. Tuttavia come sottolinea lo scrittore siamo consci che “il limite della vita è contemporaneamente limite della parola e del pensiero”.
Per l’autore di Gilberte si può parlare di liberazione dal peso delle parole, liberazione sia dal pre che dal giudizio, che gli consente di guardare il mondo e anche la Sicilia isola-mondo con una sorta di nietzschiano prospettivismo e senza limiti, come se gli occhi che guardano il mondo non fossero due ma tanti. Rovesciare il mondo attraverso la letteratura, il linguaggio, riqualificare parole che nel linguaggio comune hanno significati negativi, scegliendo proprio l’opposto rivalutandolo. Ecco dunque il frammentario-organico, il caotico-ordinato, l’infantile-maturo, il giocare-fare sul serio. Nell’ebraismo troviamo un paradigma e un monito: costretti sempre a ripensare il mondo a partire dalla ermeneutica di eventi sempre nuovi, per esempio ripensare alla Bibbia, interrogarla alla luce, anzi al buio di Auschwitz, ricreare la realtà, cercare sempre nuovi sensi, seguendo il modello dell’interrogare talmudico, principio dialogico aperto che rifiuta ogni sintesi definitiva, sospensione di ogni possibile giudizio. Il risultato è il rifiuto del pensiero speculativo, è l’esodo del soggetto non più fonte di rappresentazione ma esodo da sé, alla scoperta della estraneità, dell’alterità, dell’ignoto. Neher introduce nel suo pensiero un Forse, parola chiave per indicare l’impossibilità per l’uomo di comprendere la realtà. Il Forse indica l’erranza (e qui ritorniamo al punto di partenza), il dinamismo costituzionale del linguaggio. Nel Trattato Berakhot (Benedizioni) del Talmud è scritto: “insegna alla tua lingua a dire non so, perché non ti tocchi di essere preso per mentitore”. Credo che Apolloni condivida la concezione relazionale e paradossale che si basa sulla coesistenza e scelta delle antinomie, la dialettica dell’et et dove nulla è risolto e dove l’ultimo termine può diventare un inizio. Come un sistema midrashico il mondo ha diversi livelli di significazione, letterale, razionale, simbolico, misterico. Continua rivedibilità dei valori e delle certezze, mondo ambiguo senza centri di orientamento, domanda che si ripete all’infinito, logica di dismisura che comprende il movimento paradossale. Quello che mi sono chiesta alla fine è se il soggetto, quale emerge dalla produzione di Apolloni, sia un soggetto debole o un soggetto forte. Sicuramente non è forte nel senso del Cogito ma lo è nella volontà di potenza di scardinare l’ordine logico, linguistico, cosmico e nel presentarsi come dinamis, flusso, valanga linguistica; forte perché tesse una ragnatela che si allarga all’infinito. Sicuramente egli esprime la condizione postmoderna, convinto com’è che l’unica verità è l’assurdità della verità.
L’Olocausto ha rappresentato nella storia la fine della Storia, un punto di non ritorno che ha segnato la fine della modernità e dei suoi miti, delle “grandi narrazioni” e sogni di emancipazione, ma sarebbe sbagliato oggi rispondere all’antisemitismo con un filosemitismo che è l’altra faccia della stessa medaglia.

Angela Scandaliato

 

 
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