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ALDO FORBICE

 

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Per misure biologiche e interiori


                                …
                               Nothing remained  if pains and logings
                               Once, once set the walls; sadness
                               Closed him, rootless, loching
cause.


                                     Wole Soyinka, Prisoner, 1995

 


Due priorità sommuovono la produzione poetica di Aldo Forbice: stabilire e mantenere la necessità del ‘colloquio’;  corroborare l’urgenza di un costante impegno civile valutato nella sua umana imponenza, ben modellato tra le numerose pieghe e piaghe sociali. Un impegno da registrare proprio lungo quei cardini su cui dovrebbe ruotare l’umanità ristorata dalla dimensione del diritto, capace di restituirci scenari civili posti al riparo dalla violenza, dalla prevaricazione, da soffocamenti ideali.
Da tutto questo, anche (e soprattutto) i fatti della cronaca, come fu per la poesia di Enzo Fabiani, assumono valore probatorio per un euritmico concerto delle idee.
Un reflusso verso la dizione d’un versificatore ‘engagé’, nel quale il diorama civile, il ripristino indifferibile del diritto, e, in particolar modo, della dignità alla vita, sospinge verso quel registro dell’equa esistenza nella quale la misura biologica tende a coincidere con quella interiore, convalidata, in virtù di tutto questo, dall’uso indifferibile della parola. E’ stato proprio L’Ordinotte di Fabiani (1978) a suggerire alla poesia quanto la volontà di violenza e di sacra compassione accompagni gesti estremi; una catabasi pietosa verso la fine. L’uomo diventa in tal modo simbolo dei mali della società, della sua fragilità, della collettiva discesa verso il cancello della solitudine. E’ Wole Soyinka, il poeta nigeriano (l’autore di Lion and the Jewel) a  consegnarci ancora una volta la preminente valenza di tale dimensione, maggiormente suffragata dalla prospettiva ‘nera’ del problema, espunta da quell’apartheid tanto doloroso  quanto sanguinante; e non ultimo quel ’meticciato culturale e biologico’,  propugnato da Léopold Sédar Senghor, in cui, non a caso,  l’impegno dell’uomo di pensiero non può che trovarne beneficio, condivisione con l’altro e, più che tolleranza, insostituibile simbiosi. Una simbiosi che ha consentito ai “Negres” del secolo XX,  proprio attraverso il magistero poetico di vivere (recita così il pensiero di René Depestre), la loro “negritudine” come forza spirituale di emancipazione e di solidarietà. Il Sud del mondo emerge  in maniera più assoluta da questo musivo canto tanto dolente tanto commosso, e, attraverso l’ascolto di plurime voci soffocate dalla vestizione coercitiva del silenzio, pone le basi per il riscatto da oblii colpevoli, dall’insistita adesione rivolta ad un opprimente tempo del consumo che, inevitabilmente, sarà destinato a frantumarsi. In ogni caso a questa poesia è affidata la ricerca di un diverso umano sentire: un approdo in cui ritrovare non arcaiche probità di sentimenti, ma un perimetro armonico con il quale riappropriarsi del valore fondante dell’esistenza, al fine di riscattare i tanti, troppi, genocidi, e nel quale la fuga dalla cupezza della realtà economicamente globalizzata, può restituire forme nuove di salvazione.  “ Ho sempre inteso la poesia come un modo per ‘raccontare versi’ storie, cronache, risvolti delle mostruosità dell’uomo”, sottolinea Aldo in prefazione al suo recente testo “La coda del coccodrillo” (Libri Scheiwiller, Milano 2005). Ed ecco, oggi, un poetare percorso da un esteso cromatismo vibratile, da un’adeguata vivacità colloquiale: ora gli occhi, dal nero cobalto al piceo sembrano  nutrirsi di un tempo pervaso dal grigio; poi emergono nubi arrossate, come intrise di fimbrie al cromo, per sfociare in violacei sussulti, in caleidoscopici e multipli segnali, in ambrate sensazioni. Infine, per altre tessiture (“Un grande abbracciao”), si sviluppa una sorta di metacromasia (spostamento del colore di base) nella quale la centralità del dolore, il nodo primario dell’angoscia per un’esistenza sempre più improbabile, fanno cangiare i pigmenti  basali della percezione, quasi distorcendone la natura chimica, trasmutandone lo stesso valore simbolico, e, consegnando, inaspettatamente, ulteriori modelli visivi, nuove accattivanti simbologie. In Forbice si esaspera il motivo della ‘doppiezza’, la preoccupazione che tutto sia irrimediabilmente privo di verità palpabile, incapace di condurre ad un rapporto vero, nello stesso momento in cui la donna par trasformarsi in “bambola di porcellana”, in “assurda statua di cera”, per poi, a poco a poco diventare “bianchissima, gelida” immersa “in una densa irreale nebbia”. Ma il sentimento amoroso, il desiderio di rapportarsi con la profondità del dialogo, percorre questa poesia intessuta di “colori sfarinati, tetri, grigi”, avvinti da un nerofumo” che assorbe tutta la solare pregnanza dell’anima, quasi assorti in una chiarificazione del dolore reso sempre più espanso, sempre più coinvolgente l’interezza dell’umano paesaggio. Infine l’affioramento della figura materna, il solidale apporto dei sentimenti, sconfinano nel preoccupato esilio della fine, nella enigmatica transitorietà del nostro essere corpo e anima, nel desiderio di poter andare “senza medici, senza ospedali”, vale a dire “senza dolore”, senza l’angoscia del dover versare lacrime (“Canuta come te”). Su ogni cosa si distende, per Aldo Forbice, il firmamento d’una sotterranea emozione, resa libratile dal senso di terrestre appartenenza, di diritto alla vita, nella  volontà di resa al sentimento d’amore. Proprio la violenza dell’oggi (come quella di sempre) costringe alla riflessione, anche attraverso il dettaglio della cronaca, proprio per quel chiamarci a testimoniare l’essenza più vera del nostro essere uomini, voci non dissolte, mani e occhi che non feriscono.

                                                                                                   Aldo Gerbino

 
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