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ANNALISA DE GREGORIO

 

 

La distrazione della bellezza

 

Culla di mare
dondola il cesto africano,
catenelle di paglia
sui capelli. Copre la grazia
dei polsi una tovaglia
che nessuno compra.

Solitario, più fantastico
per il controsole
il corpo clandestino,
passi ridotti da un telo.
Sollevano ai bordi del mare
ventagli di rena le infradito:

scontornati pensieri
di una sabbia più fine,
di un deserto splendente
mentre racconta dei figli
lontani, miracolosi sorrisi.
Solo il mare è al suo posto.

 


 
Tempo variabile

 


È così una giornata di buio:

all’inizio niente di precisato,
poi la tristezza arriva dai tigli,
pieni a maggio di ciondoli bianchi;
si svelano i ventagli nascosti,
dettano in strada profumi orientali.
E io «un povero cane randagio››
con l’auto passo lontano da loro,
con vecchi vestiti, come si dice
stonata, del tutto fuori stagione.


È così una giornata di luce:

dietro un arco sul viale all’aperto
si apriva una tonda sala da ballo
in penombra: “il giardino dei tigli”.
I musicisti facevano prove
di canzoni, mentre con i sandali
ballavo da sola, come si dice
intonata, nella giusta stagione.
Arrivavano poi i militari,
e le ragazze ai tavoli gratis.
 
I dolci polsi delle rose

 


     a C. Wright

Libri cari che durante la lettura diventano
quaderni per appunti, tentativi di pensieri,
risposte a matita sui primi fogli bianchi
e, ai bordi della stampa, disegni di cornice.
Un dito si ferisce sul taglio delle pagine:
una goccia per essere fratelli di scrittura.
Quando si spaginano libri, nascono ventagli,
lettere in catena aprono parole,
lasciando sfuggire code di cometa:
sotto lo strato esterno nascono rose.

 

 

Visioni d’imperfetto

 

Nascoste dietro l’Adriatica,
corpi di periferia, le case
aperte al freddo, spogliate.
Possibile per loro uno spiraglio
dalla collina di fronte.
Tristissime finestre

dentro stanze invernali
ricucite con plastiche nere
da chi le visita di notte;
qualcuno ha accomodato
la sua fede su tappeti di carta,
gli occhi a un soffitto vuoto.

Da questa posizione di collina
guardiamo divinamente
lontani l’anello della statale,
segreti senza vergogna esposti,
e un gomito di porto
con gli alberi nudi delle barche.

 


Metamorfosi
(l’amore imperfetto)

 


L’amore fa cambiamenti
nel tempo,
si riconosce
per un unico odore
leggero
nella polvere di talco.

Fra un dito e l’altro
dei piedi asciuga
le pieghe del neonato,
rispettoso
sulla schiena sbiancata
dei vecchi.

Stessa cura, chiarore
che sfarina
nel nulla: noi due
senza parlare
per il vento dei vicoli
sul porto.

L’odore arriva a tratti,
impreziosisce
ogni gesto: prima
di separarci
riesco a stringere
la tua mano fredda.

 


 
Anniversario dimenticato
(ricordo imperfetto)

 

   A quattro piedi
   sulle foglie d’autunno
   illuminati

Tu avanti, io dietro
calpestiamo le stesse foglie
in ripetute nostre passeggiate.
Dietro il velo rotto dei ragni
novembre lavora sotterraneo
custode della vita futura,
letto per tutti i fruscii,
che appartengono ai morti:
anche per loro il mare è viola.


Vorrei che fossi tu
a custodirmi viso e mani
se non saprò più farlo:
anche quando non lo ricordi
a novembre torniamo ogni anno
custodi consacrati l’uno dell’altro.
È stato il segreto condiviso
di due vite, quello che già basta
per dare senso al nostro camminare.

 

 

La leggerezza dei vecchi
(inattesa perfezione)

 


Si chiarisce nei vecchi l’idea
notte dietro notte
che le cose si perdono
insieme con il peso delle ossa:
in costante lentezza
tutto traspare, si sveste,
svuotate le case, i cassetti.
Agli oggetti vanno via i contorni,
nella valigia le carte trascorse
tutte si riscrivono lievi,
qualche pensiero sa di morire.


Versando acqua sui bulbi
comprati con troppa leggerezza
viene da dire soldi spesi male
(le foglie strette intorno al nulla),
regalo mancato per il davanzale.
Ma di ritorno dal viaggio
distraente dei sogni la mattina
nel dormiveglia il profumo
del bianco avvento dei giacinti
a divagare l’odore solito dell’orzo.
Qualcosa ha cambiato direzione.

 

In ascolto

 


   «…sul più esile filo d’erba vivo
   più non c’era, non c’era un insetto che
   regnasse.››
   (Edmond Jabès, Canzone triste)

Se gli insetti che si muovono
sotto i miei piedi avessero l’idea
di raccontare adesso
il loro continuo sfuggire
alla morte in un giorno normale,
potessero avere un filo di voce.

Ovunque parole insonore:
ci sono momenti in cui non tocco
l’erba e non strappo una radice
perché sento i loro sospiri.
Si aggiungono a quelli di ieri,
dentro la terra non vanno perduti.

A strati leggeri il dolore fa voce.

 


 
Il settimo giorno

 


Il settimo giorno
non ha mattino,
né sera
dopo i giorni di creazione.
Necessario per trovare
una strada,
quella ancora prima
dell’infanzia,
prima d’ogni paura:
è un ritorno.

E per quale
sgranatura del tempo
riconosceremo luoghi
dove passano
con splendore intransitivo
le cose
che accadono piccole
ogni giorno?
Questa era
capacità dei poeti.
 
Radici in aria
e sotto terra i vivi
mondo a rovescio

 


Violata chiesa
anima della città
caduta in pezzi

 


Rami potati
intimità perduta
nella piazzetta

 

 

Povera strada
sull’asfalto cucite
toppe più scure

 

 


La foglia gialla
sotto il tergicristallo
multa d’autunno

 
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