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SEBASTIANO ADDAMO: UNCIECO CHE CAMMINA

 

 

UN CIECO CHE CAMMINA


A volte penso al mio paese lontano; la casa dove abito, la stanza dove vivo da tanti anni, sono come un richiamo per le memorie lontane. Una casa  enorme piena di gente, una stanza con un letto e l’armadio e il tavolo e le due sedie messe accanto al letto, una stanza d’affitto tra tante stanze d’affitto, ed io che vivo in essa come in tante altre ci vivono gli altri.
Uomini che si trascinano, ciascuno con un lavoro, ciascuno che fama sigarette e beve vino, ciascuno che è venuto da luoghi lontani, un paese, una casa, qualcosa che è caro all’anima.
Al mattino ci sentiamo tutti, ci riconosciamo: i nostri paasi, le nostre voci, i colpi di tosse, e qualcuno fischia mentre si veste, un altro che canticchia mentre si fa la barba, e quelle scale, al mattino, gli odori di spazzatura, di caffè bollito, di sapone, di dentifricio, scale umide, tortuose, che i nostri passi e il tempo hanno a poco a poco levigato e corroso.
C’è uno che si alza molto presto, talvolta mi sveglio e lo ascolto che cammina per la stanza, lungo il corridoio, si ode l’acqua che scorre dal rubinetto mentre si lava, poi se ne va, esce, si ode la sua tosse, il suo passo risuona per le scale, risuona solitario, dalla strada ancora deserta, a lungo, uguale e piano come un cieco che cammina.
Uomini così. Orari, abitudini, cose d’uso che d’un tratto si elevano al di sopra di ciascuno di noi in una legge di costanti in cui l’uomo si assopisce.
E moriamo così; un poco al giorno, un poco a ogni passo, quei passi uguali, metodici, sempre per le stesse strade, coi medesimi ritorni. E non vale avere le speranze ( oh, le care fanciulle sorridenti ), non vale pensare, come io talora penso, a un dolce paese lasciato. Non vale perché forse non si ritorna, o, forse, sarà tardi. I nostri buoni orologi che battono piano e sempre, che sembrano sussurrare ciascuno un mesto pater,  che sempre ci insegnano l’ora della nostra morte, l’ora della nostra fuga quotidiana dietro un tram, ecco, quel giorno si saranno fermati, e sarà tardi, troppo tardi.
La gran parte di noi si alza quasi alla medesima ora, per le stesse cose. Anche se uno usa bere un po’ di vino o un altro fumare una sigaretta o un altro leggere il giornale o guardare il cielo o curiosare al balcone di fronte, c’è per tutti la stessa ora d’uscita. C’incontriamo, allora, per le scale, qualcuno è gaio, un altro è triste, ci salutiamo, ci chiamiamo per nome, Arturo o Matteo, ciascuno con la voce di sempre, una voce nota da cui il nostro nome esce sbiadito e logoro come ad ascoltarlo dallo stesso disco. Diciamo: “Fa freddo, oggi “, oppure: “ Guarda quella ragazza”, e ci voltiamo, e, quando è lunedì, ci raccontiamo le nostra domenica; diciamo: “Hai letto sul giornale il disastro ferroviario? “ e rispondiamo sì o no, parliamo dei morti che ci sono stati, diciamo altre cose, pensiamo così parlare l’uno all’altro, invece è solo un modo di fare le scale insieme.
Nelle belle giornate, se c’è tempo, ci avviamo a piedi, quelli che abbiamo il medesimo percorso. Allora, lungo la strada, parliamo di donne, sparliamo un po’ dei nostri capi-ufficio, ci diciamo, a volte, della gran noia a lavorare, intanto pensiamo alle cose che ci sono care. Ma tutto è senza importanza, uguale e indifferente, e anche se uno si arrabbia per un collega che gli ha soffiato l’avanzamento, tutto è lo stesso, inutile e senza senso, appena una specie di ginnastica per la mente.
Mai ci può essere rivolta per chi sa ubbidire a un orologio.
Accanto a noi sferraglia un tram; lo vediamo zeppo di gente, sembra una gran massaia avviata agli acquisti del giorno, c’è altra gente per le strade, uomini e donne usciti da altre case, che hanno noia e ufficio, che hanno, forse anch’essi, qualcosa lontano che è caro all’anima, uomini pei quali batte un orologio, i quali avranno udito il mesto pater quotidiano.
Ognuno, man mano che giunge al suo ufficio, ci lascia. – Arrivederci – dice lui. – Arrivederci – diciamo noi. Scompare dentro un portone; sulla tabella c’è scritto ‘Imposte Dirette’ o ‘Poste’ o altro; c’è uno che fa il contabile in una ditta di Pompe Funebri, ma è lo stesso. Non è nelle cose la nostra morte.
Finchè tutti, a una certa ora, giungiamo. C’incontriamo con altri, ci salutiamo, ci diciamo le cose accadute e, se è lunedì, ci raccontiamo la nostra domenica.
Ed ecco il lavoro; io, a volte, penso al mio paese lontano, scrivo tante cose sul registro, gli altri scrivono tante cose sui registri, le ore passano e poi anche per quel giorno è finita; ci salutiamo, e di nuovo ritorniamo, di nuovo m’incontro con gli altri.
Ogni tanto, a sera, si esce un po’ assieme; andiamo al cinema, andiamo a donne, a uno piacciono magre, a un altro grasse, uno ha anche la fidanzata e gli piace andare a spasso per i luoghi tranquilli, ma poi, a notte, bisogna pur tornare, restar soli.
Quando rientro, la mia stanza mi riporta strane angosce, una mestizia quieta e un po’ amara; chiudo la finestra, cammino per la stanza, guardo i muri, le sedie, il letto, e i miei passi nella stanza diventano la vita di un morto, nella sera lunga che non ha albe.


                                                                                               SEBASTIANO  ADDAMO

Da:  tempo di letteratura  anno I numero 1
Marzo 1960

 
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