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GIANCARLO PONTIGGIA, Conversazione con LUIGI FONTANELLA

 

 


A cura di Giancarlo Pontiggia


P. Mi piacerebbe che iniziassi dalle origini, non solo poetiche, e ci raccontassi dove sei nato, quanto ha influito il paesaggio natale sulla tua poesia, e come sei arrivato alla decisione di essere un poeta.

F. sono nato, per caso, in una piccola contrada chiamata Carifi, che è una frazione di San Severino (Salerno), il 20 settembre 1943. “Per caso”, perché mio padre e mia madre (una diciottenne in procinto di darmi alla luce), stavano fuggendo dal Cilento: lei aveva vissuto qui con la famiglia; il mio nonno materno era toscano dell’isola d’Elba e, in quanto antifascista, era stato molto presto condannato al confino, a Vallo di Lucania. I miei si stavano dirigendo verso Angri, il paese nativo di mio padre. Si era oramai alla fine della guerra: dodici giorni prima della mia nascita erano sbarcati gli americani a Salerno, e nel salernitano c’era una grande confusione tra tedeschi in ritirata, intere famiglie sfollate e alleati americani appena sbarcati. Ho vissuto la maggior parte della mia infanzia a Vietri  sul Mare, che è praticamente un’estensione di Salerno nella parte nord della città. Il paesaggio che sempre da allora mi sono portato dentro è quello del mare della costiera amalfitana. In questo momento si affaccia in me il ricordo lancinante degli scogli che si vedevano sotto il nostro terrazzo a strapiombo sulle onde spumeggianti. Naturalmente quest’atmosfera, chiamiamola così, non influiva direttamente sulla mia poesia, perché a quell’età (cioè dai due ai dodici anni) non sapevo ancora cosa significasse scrivere versi. Ho scritto la mia prima poesia a diciotto anni (la mia famiglia si era intanto trasferita a Roma; e Roma è stata la mia città di adozione) sul diario scolastico di una mia compagna di classe terza liceo classico; glielo avevo momentaneamente rubato perché – molto timido – volevo dichiararmi a lei mettendoci dentro una lettera d’amore. Sfogliando questo diario di Patrizia ( si chiamava così la ragazza della quale ero segretamente innamorato) mi accorsi con mia grande sorpresa che conteneva riflessioni e varie poesie della stessa Patrizia! Per me fu come un’agnizione: mi rendevo conto che la poesia era un’esperienza praticabile, non depositata solo nei libri. Strappai la lettera e scrissi una poesia. Il quel momento si decideva il mio destino di poeta.


P. Quali sono stati i tuoi padri poetici? Quali le letture e gli scrittori che hanno più influito non solo sulla tua poesia, ma anche sulla tua visione del mondo?

F. Innanzi tutto i lirici greci che lessi prima nella traduzione di Quasimodo e poi anche in originale, e alcuni poeti latini, in particolare Catullo, Tibullo e Ovidio, da me conosciuti al Liceo. Ma poi, durante i miei anni universitari alla “Sapienza”, i poeti decisivi sono stati i simbolisti e i surrealisti  francesi, che studiai a fondo anche in vista della mia tesi di laurea su André Breton e il suo passaggio dal simbolismo al surrealismo. Degli italiani ho molto amato e tuttora amo (faccio dei nomi un po’ alla rinfusa): Foscolo, Ungaretti, Campana, Corazzino, Pavese, Calogero,Sinisgalli, Cattafi; insomma poeti di forte ispirazione visionaria e simbolica, che però avevano alle spalle una
Erlebnis di intensa e concreta partecipazione alla vita, talora con esperienze esistenziali laceranti. Ma per la mia scrittura hanno contato molto anche gli stessi poeti che mi erano/sono coetanei o quasi coetanei, coi quali mi sono utilmente confrontato e continuo a confrontarmi, e dai quali ho tratto suggestioni feconde per il mio lavoro creativo. Potrei fare i nomi di Fabio Doplicher, Adriano Spatola, Giuseppe Conte, Milo De Angelis, Giovanna Sicari, e sicuramente qualche altro che ora sto dimenticando. Devo inoltre ammettere che non sono stati soltanto i poeti che hanno nutrito la mia poesia; ho letto e riletto – anche per la mia professione di docente universitario – tanta narrativa dell’Otto-Novecento; e da non pochi narratori, alcuni dei quali furono poeti assai interessanti, ho tratto piacere e giovamento per la formazione del mio gusto letterario. Mi piace citare su tutti, De Amicis, Tarchetti, De Marchi, Fogazzaro, Capuana, Pirandello, Borgese, (Svevo, è lo scrittore che di gran lunga sento il più consanguineo), Tozzi, Palazzeschi , Bontempelli, Pavese, Comisso, Landolfi, Delfini (di questi due ultimi scrittori ho studiato a fondo l’intera opera). Infine – last but not least – una forte influenza per la mia emancipazione critico – culturale, come pure per la mia personale Weltanschauung, l’hanno esercitata alcuni critici letterari che sono stati miei diretti educatori; quattro in particolare, su tutti: Giacomo Debenedetti, durante il mio apprendistato universitario romano; Dante Della Terza, durante il mio dottorato di ricerca ad Harvard; Cesare Garboli, col quale ho avuto una intensa frequentazione dal 1981 fino alla sua morte, anche per la mia assidua collaborazione alla rivista “Paragone”;  e Alfredo Giuliani, da me frequentato abbastanza regolarmente negli anni Ottanta, col quale ho condiviso l’interesse per alcuni scrittori “irregolari” o ingiustamente trascurati dell’Ottocento e Novecento italiano: da Vittorio Imbriani e Carlo Dossi, per continuare con Alberto Savinio, Carlo Emilio Gadda, Antonio Delfini, Tommaso Landolfi, Anna Maria Ortese, Vittorio Bodini, ecc. Forse si potrebbe scrivere un’intera nuova storia del nostro Otto-Novecento composta da una corrente che non venga considerata  semplicemente “eccentrica” ma, come mi diceva appunto Giuliani, che collaborò fattivamente a un fascicolo monografico di “Gradiva” su Landolfi (n.7, 1989), come una corrente “tortuosamente e derisoriamente centrale nella letteratura italiana del secondo Ottocento ad oggi.


P. A un certo punto sei partito dall’Italia per gli Stati Uniti: raccontaci come è accaduto, che cosa è cambiato per te dopo di allora, ( se qualcosa è cambiato), quali ambienti letterari hai frequentato. Soprattutto: come ti è sembrato il panorama della poesia italiana osservato dall’altra parte del mondo? E che effetto ti  fa adesso, visto che continui a muoverti anche per ragioni di studio, fra Stati Uniti e Italia?

F. La mia “avventura”americana comincia trent’anni fa – esattamente nell’agosto 1976 – all’Università di Princeton, dove arrivo con una borsa di studio Fullbright. Il mio obiettivo originario era di studiare la presenza del surrealismo nella letteratura e nell’arte americana del secondo dopoguerra. In particolare, volevo verificare l’influenza esercitata da André Breton in Messico e negli Stati Uniti, quando, appunto, fra il 1940-1945 aveva soggiornato in questi paesi, lanciando la rivista internazionale “ VVV”, insieme con Marcel Duchamp, Max Ernst e David Hare, e contribuendo attivamente alla nascita dell’Espressionismo Astratto, che poi tanta importanza doveva avere nel campo delle arti visuali. Ricordo vividamente la mia frequentazione con Hare, che  di nel 76 era ancora vivo e assai attivo, e le successive importanti conoscenze da me fatte in quell’ultimo scorcio degli anni Settanta e inizi anni Ottanta: Dore Ashton, Harold Rosemberg, Carlos Fuentes, Nicolas Calas, Paul Auster, Susan Sontag e, per quanto riguarda prettamente la poesia americana, John Peck, Alfred Corn, Maura Stanton, Edward Hirsh, Alan Williamson , Frank Bidart, Louis Simpson. Di alcuni di questi poeti ho tradotto varie poesie uscite in riviste italiane.
Mi rivedo a Princeton (1976-78) e successivamente a Cambridge, Massachusettes (1978-1982): messo da parte il mio iniziale interessamento all’argomento per il quale ero venuto in terra americana, molto presto esclusivamente dedito allo studio della letteratura italiana. In quegli anni divorai centinaia e centinaia di libri di narrativa e poesia italiana; mi sembrava, così facendo, di essere più vicino alla mia cultura man mano che disperavo di farvi stabilmente ritorno. Questa fase frenetica, ma anche abbastanza sistematica di studio e di letture, culmina nella primavera del 1981, quando conseguii il mio dottorato di ricerca alla Harvard University (Ph. D. in Lingue e Letterature Romanze); l’argomento della mia tesi confluì due anni dopo in un volume saggistico ( Il  surralismo italiano, Bulzoni, Roma 1983) che – lo dico senza presunzione – fu recensito su tutti i maggiori quotidiani italiani e su tutte le riviste più significative; ebbe varie edizioni e fu adottato in diverse università italiane. Ritengo quegli anni a Princeton e a Cambridge molto fecondi per la mia maturazione di poeta e di critico. Andavo nel contempo allargando la mia conoscenza della poesia anglo-americana e andavo intensificando – paradossalmente proprio perché ero lontano dall’Italia – i miei rapporti con tanti poeti e scrittori italiani (posseggo dal 1986 a oggi decine di raccoglitori che contengono questa corrispondenza). Il panorama letterario italiano, in particolare quello poetico, mi  sembrava tra i più vivi e stimolanti: non trovavo, tranne eccezioni importanti, gli stessi stimoli nella poesia americana, che per tradizione acquisita ha, per lo più, un taglio narrativo; non trovavo quelle impennate, quegli scatti, quei cortocircuiti talora perfino sconcertanti e irriverenti, che a me sembrano invece fondamentali per una poesia che voglia essere veramente originale e innovativa, senza che essa perda quella natura misteriosa e quella vaghezza che le sono proprie, e a cui sono naturalmente portato sia per temperamento sia per l’educazione letteraria da me avuta in Italia.
Non vorrei essere frainteso: ho grande rispetto per la poesia americana, per la quale nutro spesso una profonda ammirazione (Hart Crane, John Berryman, Robert Creeley, W.H. Auden, Richard Wilbur, Sylvia Plath, John Ashbery, Stanley Kunitz, in parte gli stessi poeti della beat generation , che però in Italia sono stati sopravvalutati , mi sembrano apici incontestabili); ma, evidentemente, non sono mai riuscito a “sintonizzarmi” completamente, sia in senso letterario sia in senso esistenziale, con la cultura e la società americana; e l’emozione, mettiamo, che ancora oggi posso provare leggendo un sonetto come Alla sera del Foscolo, o una poesia perfetta come L’infinito del Leopardi, sono per me esperienze emotive e intellettive irripetibili. Dunque, per concludere la mia risposta alla seconda parte di questa domanda, dirò semplicemente che io con la poesia italiana ho sempre convissuto, pur standone in parte lontano, e che, per quanto riguarda il mio lavoro, l’esperienza umana e letteraria americana ha certamente contribuito ad arricchire il mio bagaglio stilistico-culturale: in certi casi rendendo la mia “visione” più emancipata e cosmopolita. Dall’altro lato, stando in America, ho anche potuto meglio valutare e capire – come in una specie di gigantografia che osservavo da lontano – il panorama socio-culturale-politico italiano, non escluso ovviamente quello specifico della poesia, esprimendo, quando era necessario, un atteggiamento fortemente critico; ma, al contempo, anche adoperandomi con tutti i miei mezzi a farla conoscere meglio in America. Anzi, questo è stato il mio obiettivo primario, prima con la fondazione dell’ IPSA (Italian Petry Society of America) dal 1986 al 1999, poi con la IPA (Italian Poetry in America), dal 2000 ad oggi, e, parallelamente, in modo costante, attraverso la rivista “Gradiva”, da me diretta fin dal 1982, che proprio l’anno scorso ha festeggiato il trentennale.
Mi è doveroso esprimere, a questo punto, la mia gratitudine nei riguardi della Fondazione Sonia Raiziss, nella persona di Alfredo de Palchi, per aver generosamente appoggiato sia “Gradiva” sia le associazioni da me fondate a New York. In conclusione, devo dire che le mie frequenti e lunghe permanenze in Italia, paese dove trascorro regolarmente almeno quattro mesi all’anno, mi hanno permesso di vivere simultaneamente, senza soluzione di continuità, le due esperienze, spesso fondendosi, queste esperienze, in modo felicemente contraddittorio.


P. Parliamo della tua poesia: fin dalle tue prime raccolte, hai avuto bisogno di alternare poesie di più ampio respiro ad altre più brevi e lampeggianti, tanto che nel 2000 hai anche pubblicato un volume di poemetti(Terra del Tempo) estrapolati dalle raccolte fino ad allora pubblicate (due di essi, allora inediti, sono anche confluiti in Azul). Spiegaci come nasce questa doppia ispirazione.

F. Non sono in grado di rispondere pienamente a questa domanda, se non dicendo che in certi momenti ho avuto bisogno di “tempi” e “spazi” più lunghi per esprimere quel dato momento ispirativi o quella data “occasione” – per dirla con Montale. E’ possibile che la lettura assidua di poeti come Doplicher, Cesarano, il primo Cucchi e il primo Conte, abbia influenzato, a volte, un mio discorso-in-versi più articolato. E’ probabile, inoltre, che la lettura di tanta e varia poesia “narrativa” americana mi abbia fatto “scoprire” il gusto del “racconto-in-versi”, o la funzione della canzone e della ballata: un genere poetico che amo molto, e che da noi ha avuto in Cavalcanti e Tetrarca i massimi cultori. Quanto a Terra del Tempo, si è trattato di un proponimento che avevo coltivato da tempo: l’idea di raccogliere in un unico volume i miei poemetti s’è trasformata in un progetto letterario preciso ed autonomo, distino, per così dire, dalla poesia che ho scritto per quasi quarant’anni; distinto, ma , si capisce, ben all’interno di essa. Mi sono reso conto, insomma, che fin dai miei primi libri esistevano dei testi di più ampio respiro nei quali la scrittura, piuttosto che coagularsi in brevi momenti circoscritti, aveva bisogno di distendersi in una riflessione d’accumulo più lunga, talora in forma “diaristica”, talora in quella della prosa in versi ( un po’ alla Nelo Risi e, appunto, alla Giorgio Cesarano, due poeti che amo tanto), talora in quella sperimentalistica o metalinguistica (il mio periodico interrogarmi sul senso stesso dello scrivere e del fare poesia): sia ben chiaro però che il mio occasionale metalinguismo non è mai un fine, piuttosto è un temporaneo lasciarsi andare al “giuoco” disincantato e distratto dei versi, quando le parole prendono a giocare tra di loro, o per dirla meglio con Breton, quando les mots font l’amour.

P. La tua è una poesia gremita di nomi, di date e di luoghi: molti tuoi componimenti sono dedicati ad amici (spesso amici-poeti), o a figure familiari; molti parlano di viaggi, di partenze e di ritorni. E’ come se la tua poesia avesse sempre bisogno di presenze, di ombre, di parusìe, per usare il titolo di una tua sezione poetica (e che tu fra l’altro usi – sto  citando – nell’accezione originale di “ apparizione magica o sacrale”).

F. Tutto questo è vero: in effetti ho sempre cercato, scrivendo poesia, come di coprire una distanza tra me e gli altri; scrivere, per me, è esprimere una grammatica del pensiero che mi permette di sintonizzarmi con cose, contrade e persone che mi sono care. Da qui il mio impulso ad annotare in calce, in tante mie poesie, luogo e data, come a voler fermare quei momenti nel tempo e nello spazio. Questo mi succede soprattutto quando sono in viaggio: una fase, questa, di totale sospensione temporale, letteralmente felice, nella quale mi vengono incontro, al pari di “parusìe”, oggetti, luoghi, gesti e visi che mi appaiono e mi parlano magicamente di se stessi, e coi quali io stabilisco un rapporto di totale empatia.

P. Un altro tema fondamentale della tua poesia è il tempo, che hai sviluppato in poesie lunghe e di respiro po’ematico. Nella poesia che conclude Azul, che per ora è il tuo ultimo libro, parli fra l’altro di un “gesto” che “si ripropone d’un tratto / intatto nel tempo d’un tempo / che non conosce lunghezza / o astratta estensione, / come un lago calmo / pacificato / nella sua pura cornice di verde”. E’ questa la tua idea del tempo?

F. Vivo con angoscia il trascorrere inesorabile del Tempo. Ne sa qualcosa Irene, mia compagna e moglie. Non sono riuscito, non riesco a pormi olimpicamente , al di sopra di esso. Ci  sono dentro in ogni minuto, in ogni istante del mio vivere. Al tempo ovviamente è legato il pensiero della Morte. Non riesco a capire, e forse un po’ le invidio, quelle persone che passano la propria vita senza essere mai sfiorate da questo pensiero. La poesia, per me, quando arriva, ha da questo punto di vista anche un fine pratico: può esorcizzare la malattia del tempo, in qualche modo sospendendolo in una sfera che Leopardi avrebbe chiamata “vaga”, confinandola in quel momentaneo nulla che c’è, mettiamo, fra chi parte e chi arriva, tra chi offre un dono e chi lo riceve (mi viene in mente una poesia-lampo di Ungaretti: “Tra un fiore colto e un altro donato / l’inesprimibile nulla”), o, per esempio, nell’abbandono sincero e totale all’amore o magari a una danza che, in un lasso di tempo brevissimo, fa dimenticare al danzatore i guai del mondo e la transitorietà di noi in esso. Ho detto “danza”, avrei potuto dire ”passeggiata”, come per esempio quella che compie in un totale, smemorante disincanto, e, al contempo, in uno slancio amoroso verso il mondo circostante, Robert Walzer nell’omonimo racconto Der Spaziergang, per me uno dei vertici assoluti di tutta la narrativa mitteleuropea moderna.
 
P. Spesso nei tuo versi ti interroghi sul senso dello scrivere e del fare poesia. Da che cosa nasce questa esigenza: da un’ansia circa i destini della poesia contemporanea; dal bisogno di ridefinire il rapporto fra poesia e mondo, parola e realtà?
 
F. Non credo che i miei versi nascano da una mia domanda circa i destini della poesia; non mi propongo un obiettivo così ambizioso. Trovo naturale, almeno per me che ho dedicato la mia vita alla poesia, interrogarne la natura, il suo raggio d’azione, il suo in-canto e al contempo il suo rapporto con la realtà ( o irrealtà) giornaliera. Da qui deriva anche un mio certo sperimentalismo o a volte la ricerca, anche ossessiva, di una sola parola che sia originale e originaria, il più possibile precisa. Tutto ciò, però, non ha nulla a che vedere con l’esasperato avanguardismo matalinguistico, fine a se stesso, degli anni passati, come pure con una certa poesia tutta cerebrale. Credo che per un poeta il linguaggio sia ancora un mezzo per rivelarsi al mondo, e non un fine. Credo anche che alla base dello scrivere poesia ci debba essere un’autentica passione, una vera necessità.

P. A me pare che la tua poesia presenti, anche quando parli di temi privati, una forte tensione pedagogica e civile, benché spesso celata, come se volessi difenderti dagli eccessi retorici ed enfatici così evidenti in tanta poesia degli anni Sessanta e Settanta.

F. Verissimo. Non potrei mai scrivere una poesia “astratta” o avulsa dalla realtà; e credo che poeti di forte passione civile come lo sono stati  Pasolini, Risi, Cesarano, Raboni, siano stati per me e per tanti poeti impegnati della mia generazione, degli esempi forti e probanti. Detto questo, non credo, però, che la poesia possa risolversi esclusivamente in una forma di lotta politica o di impegno civile. Credo che essa debba anche avere il coraggio di confrontarsi con i grandi temi dell’esistenza: l’amore, la morte, il tempo, il dolore, le ingiustizie, ecc., senza enfasi e senza cadute retoriche, ma interrogandosi a fondo sull’enigma del nostro esserci. Per un poeta la realtà va decrittata e interpretata, alla stesso tempo cogliendo il mistero con cui si presenta ad ogni momento davanti ai nostro occhi. Io amo quei poeti di forte immaginazione che hanno saputo coniugare l’analisi concreta con un’innata capacità visionaria, poeti che interrogando/interpretando profondamente la realtà riescano, per così dire, ad oltrepassarla, parlandoci nel tempo.

P. A questo proposito ti chiederei quanto ha contato, per te, la lezione di Pasolini, di cui hai recentemente scoperto e pubblicato un’intervista americana del 1969.

F. Non ho conosciuto Pasolini, intendo personalmente, e questo mi salva da qualsiasi facile glorificazione postuma. Per quanto mi riguarda, credo che oggi la “lezione” di Pasolini sia da ricercare non tanto nei suoi romanzi (abbastanza datati) e nella sua poesia (il meglio resta nella raccolta (Poesia in forma di rosa), quanto invece nei suoi saggi e interventi critici. Questi sì che hanno contato – e tuttora contano – nella mia formazione e nella mia ricerca. Il libro da me pubblicato, cui fai riferimento, Pasolini rilegge Pasolini (Archinto, Milano 2005), che contiene una bellissima intervista inedita di Pier Paolo rilasciata a New York sei anni prima della sua morte, ne è un esempio lampante.

 P. Raboni aveva notato a proposito della tua poesia più recente, una particolare  attenzione ai valori formali del testo, in particolare alle scansioni strofiche e agli usi metrici. Tra gli inediti, poi, scorgo anche testi poetici in prosa. Che cosa significano queste scelte espressive?

F. Queste scelte hanno alle spalle essenzialmente due ragioni, ambedue pertinenti alla mia espressività.
La prima vuole significare come un ritorno all’attenzione stilistica del senso/suono dei versi;   quest’attenzione ai valori formali vuole anche essere una sfida, in certi momenti a “ forzare” la metrica classica, a misurarsi con la contemporaneità. Per esempio l’impiego del sonetto e della terza rima, come ha acutamente notato Roboni, va proprio in questa direzione (si veda la sua nota su Azul, in “Paragone”, nn.36-38, 2001). Sicché il tutto può, in modo se vuoi bizzarro o provocatorio, rafforzare la sperimentazione in poesia.
La seconda risiede in una mia volontà di andare oltre il “poetico”, di usare cioè brevi testi in prosa che sappiano cogliere insieme l’occasione poetica e la mia riflessione sulla stessa, senza che quest’ultima prevarichi sulla prima. Un poeta che ha saputo felicemente coniugare queste due “spinte” è Charles Simic. Nella nostra tradizione più recente lo stesso Roboni ne ha fatto un uso molto efficace e suggestivo ( vedi ad esempio i suoi testi in prosa in Barlumi di Storia).

P. Come incide il tuo lavoro di studioso (di uno studioso, poi, che insegna letteratura italiana in un’ università americana) sul tuo lavoro poetico?

F. Direi come una sorta di continuo “ correttivo”; e al contempo di arricchimento (aggiornamento) dentro il mio fare poesia. Procedo così, avanti e indietro, nelle riletture dei classici antichi e moderni, ogni volta imparando o scoprendo qualcosa di nuovo; dall’altro lato – anche per il lavoro redazionale di “ Gradiva” – leggo tanta poesia italiana contemporanea che mi permette, nel bene e nel male, di essere aggiornato sulle sue sorti, spero magnifiche e progressive…

P. Quali credi che siano le strade della poesia contemporanea? Quale il ruolo del poeta nella società di massa? E in quale direzione vedi muoversi il tuo lavoro nei prossimi anni?

F. Difficile dire quali siano le strade della poesia contemporanea, anche perché saranno vari i modi di ogni autore per esprimerla. Io penso che un  vero poeta debba essere coerente prima di tutto con se stesso, e cercare sempre una sua strada, che poi corrisponde alla sua verità. Credo che già questa fedeltà alla propria voce, al proprio credo, al proprio modo di esprimerlo ( Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile) sia già un importante obiettivo per il “ruolo” che ogni poeta dovrebbe ascrivere a se stesso nell’odierna società. Non credo al poeta/profeta: credo, voglio credere, però, a quel poeta che sia sensibile ai gusti della sua “civiltà”, e reagisca nella maniera a lui congeniale: da poeta, e dunque con il suo onesto dire, senza mai sacrificare l’immaginario che è dentro di lui. Che sappia, insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio. Quanto al mio lavoro e ai miei progetti: mi piacerebbe portare a termine il mio secondo romanzo e completare une serie di atti unici (mi appassiona sempre anche il teatro). Non riesco a dare una valutazione o una direzione definita (definitiva) alla mia vita creativa, che è un magma in continua evoluzione. Saranno altri a farlo dopo la mia morte. Per ora mi propongo di tenere ben vivi, attivamente nutrendoli, gli affetti dei miei familiari e degli amici che mi sono cari, e, per me stesso, mantenere uno stato di curiosità verso il mondo che mi circonda. Credo che una delle maggiori fascinazioni di quella cosa buffa che è la vita ( l’appellativo di “buffa” è, prima che di Giuseppe Berto, di Italo Svevo nella Coscienza di Zeno) consista proprio nel saper conservare una disponibilità psicologica a farci sorprendere da tutto ciò che essa può ogni giorno regalarci. Aspiro, in generale, ad una esistenza più giusta; che ci siano meno disuguaglianze sociali e meno sofferenze nel mondo. Vorrei – lo vorrei fortissimamente – che la Poesia contribuisse davvero a migliorare il mondo in cui viviamo e, individualmente, a renderci più comprensivi e generosi verso gli altri.

 
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