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GIUSEPPE PUGLISI e PIERO ZUCCARO, di GIANNI LONGO

 

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La scoperta dell’immaginario
moltiplica la ricchezza del reale.


Scandagliando l’opera di Giuseppe Puglisi, ci viene rivelato che non imita la forma ma la crea in sfumature cromatiche che coinvolgono l’osservatore. Non imita la vita, tuttavia ne trova una equivalente. E non mira all’illusione, bensì a convincerci della realtà delle sue forme che guidano lo spettatore alla natura stessa dell’immagine.
Il disegno a volte precede il colore, quest’ultimo non vuol dire che sia più importante, cioè non necessariamente il disegno ha sempre bisogno della stesura del colore per raggiungere quella bellezza insolita e dimensione assoluta.
Tempo addietro, nello studio che divide con l’amico e collega Piero Zuccaro, ho potuto osservare Puglisi mentre fissava, ancora prima di toccarla, la tela bianca che gli stava davanti, poi con un colpo dopo l’altro di fusaggine che teneva fra le dita, con grandi linee e movimenti piuttosto decisi, tracciò sulla grande superficie bianca una figura. Era il disegno di un immagine al culmine della sottigliezza e precisione di gesto, un nudo che conferiva alla tela stessa che l’ospitava un fascino particolare: opera - quel disegno - che non ebbi più purtroppo la possibilità d’ammirare, poiché Puglisi pochi giorni  dopo aveva iniziato la stesura del colore.
 
Nei lavori presenti in questa mostra, come La palma, i dipinti del Fayyum, si trovano quelle differenze sottili dei segni della matita o del pennello che guidano l’osservatore sempre più in profondità.
Puglisi è un pittore dotato di una sensibilità non comune, ed il Faro, dipinto del 1995, fortunatamente approdato assieme agli altri in questa esposizione, ci permette di osservare una composizione inconsueta e piena di estro. Questo piccolo - grande quadro portò il suo autore, nell’aprile del 2002, a scrivere: «oggi che forse sono un po’ più maturo, mi riconosco ancora in quel piccolo Faro maturato prima di me».
La composizione già definita nel disegno, Puglisi la traduce in una serie di eventi cromatici che più si osservano più sono le possibilità interpretative che si dischiudono. Dipinti in cui l’autore non mira alla resa di un’immagine ben definita, né si lascia guidare soltanto dalla figura così com’è vista, inoltre il colore è percepito nel processo del suo formarsi come effetto della luce; quest’ultima non ha origine fisica, né una sorgente, ma da protagonista arriva e costruisce rivelando in una materia preziosissima l’immagine: anzi è l’immagine.

Anche Piero Zuccaro è un’esponente che si evidenzia nel “Gruppo di Scicli”.
La sua pittura alle due dimensioni della tela sembra aggiungerne una terza, da cui si origina una profondità segreta che non si può conoscere nella sua essenza, ma dentro alla quale, qualcosa di inaspettato sembra venir fuori dalla superficie del colore.
Anni addietro ho avuto l’opportunità d’osservarlo mentre dipingeva, una musica di Lucio Dalla gli teneva compagnia, e sono rimasto attonito dalla sorprendente immediatezza con cui la sua mente aderiva agli impulsi che venivano trasmessi sulla tela, dove  pennellate intrise di gestualità sferzante distorcevano la forma delle cose per inventarne altre.
L’autore realizza una straordinaria fusione di natura e pittura, quest’ultima anche materica in cui l’essenziale più che mostrarlo è reso intuibile: ne sono testimonianza le opere
I Riflessi, La casa rosa, La grande gru.
Zuccaro tematizza la forma fino alla sua disgregazione ricreando un’altra realtà la cui immagine pittorica  vede come valore in sé.
In questi lavori, realizzati dal 1991 al 1998, l’immagine appare vicina eppure irraggiungibile, compare e scompare al tempo stesso.
L’osservatore scopre dei valori che però gli sfuggono, e quanto più cerca d’afferrare il rappresentato tanto più gli diventa inafferrabile, e il compreso incomprensibile,  proprio là dove la luce scheggia “la natura che in quanto oggetto è limitata, ma in quanto idea
è infinita”, ossia l’essenza della natura nella misteriosità del colore.

 

      GIANNI LONGO

 
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