ASPETTAZIONE Venendo, una sorta di presagio: in stormi a V, a un’ora così insolita centinaia di uccelli migratori inquietavano il cielo prenotturno sentendo inconsciamente che domani è il giorno d’apertura della caccia. Ma qualcuno – uno sparo, un altro – ecco che l’ha anticipata a tradimento.
Forzo invano la chiave nella toppa finché mi raccapezzo, e cambio chiave. Non si respira, la corrente è saltata. E non è scattato l’allarme ? Dalla tettoia il gatto guarda e tace. Esco e mi siedo sull’orlo del poggetto. L’erba è ustionata dai lunghi controra di un’insaziata estate che tende a oltrepassare la sua orbita col carro dissennato di Fetonte. Sfreccia un aereo: il rombo è di Tornado. Marte stanotte è più che mai vicino; ma non di guerra, di pace ho bisogno. Gran silenzio nel cielo esterrefatto! Venere non si scorge: o è tramontata o è coperta da qualche congiunzione. No, non d’amore, d’oblio ho bisogno, della capacità di rinunciare. No desiderio no dolore… ma che volontà ci vuole per non volere! Non ricordare non desiderare: ogni ricordo può essere usato contro di me; e ogni attesa. Non aspettare uguale a non amare; non amare equivale a non volere… No amore no attesa no dolore… Vorrei volere, voglio, a tua insaputa, chiamarmi fuori da questa partita e prima che appaia Venere/Lucifero - quasi tu fossi un’altra - rinnegarti. Ti voglio rinnegare e disconoscere - quale tu sei – come s’io fossi un altro. Sì, per tre volte ti rinnegherò perfino con me stesso prima del canto del gallo. Gli occhi senza risposta di sonnambulo, adesso è qui col taglio dell’orecchio ti rinnego - quale tu sei e non sai – un taglio netto! prima che canti il gallo. Nell’acquario il cielo è rosseggiante: Marte a occhio nudo, è l’astro più incombente. Seduto in alto, ignavo e supponente, il gatto mi guarda come un Buddha. Da notti e notti il prato assetato di luna ne attende ansiosamente la rugiada. Dentro i cipressi, con la lingua secca, i merli non riescono a dormire. Ora non scrivermi, non telefonarmi. No, Emme, non scrivermi non cercare di prendermi ancora col gioco senza fine dei perché per il tuo verso. Io non ti chiedo nulla. So, come il gatto, eppure ho obliterato. Rientro in casa. Staccherò il telefono; non smanio più di trovare un messaggio come un cane drogato la droga. Semmai m’accenderò il televisore, lo sguardo assente da ogni aspettazione, e terrò spento l’occhio della mente. Rispetterò la consecutio temporum senza altri errori di coniugazione. Solo le mamme continuano a portare nel grembo il figlio che non è mai nato. Tu, smagnetizza il codice d’accesso ad un campo mentale che attraversi a tuo piacere, attesa e inaspettata come gli uccelli di stagione come il corso di Venere e come il vento. Sottraiamo i giorni a venire a quest’insensata alienazione che lascia appesa la spoglia alla stampella. Sì, l’amore è la presenza rimandata di un’assenza, che si dispone e si riposiziona come se la scala di Jacob s’accrescesse via più di gradini secondo il nostro bisogno di salire*. Ma ogni giorno il risveglio sapevamo che c’era il rischio dell’errore umano. Adesso no, non dire altro, non scrivermi non chiamarmi tre volte in un’ora senza parlare non mi braccare fin dentro me stesso non farmi il vuoto spinto nel cervello non depredarmi sulla via del sesso di tutte le ragioni che sappiamo, non nominare un’altra volta invano il nome impronunciabile e ferito dell’amore. Gli occhi senza risposta dei sonnambuli, pigliamo il verso per il suo rovescio - senza un perché, senza un redde rationem – e, con mutuo recesso, dall’oltre di noi stessi desistiamo. «Non lo farò, e non perché non voglia. La rana, quando le sponde sono troppo larghe, non salta in un sol balzo il fosso. Prende tempo… da foglia a foglia, ecco perché, perché non posso! Da foglia a foglia sì, da foglio in foglio…»* * Versi di M.C.Z.P.
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