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CORRADO CALABRO'

 

 

ASPETTAZIONE


Venendo, una sorta di presagio:
in stormi a V, a un’ora così insolita
centinaia di uccelli migratori
inquietavano il cielo prenotturno
sentendo inconsciamente che domani
è il giorno d’apertura della caccia.
Ma qualcuno – uno sparo, un altro – ecco
che l’ha anticipata a tradimento.

Forzo invano la chiave nella toppa
finché mi raccapezzo, e cambio chiave.

Non si respira, la corrente è saltata.
E non è scattato l’allarme ?
Dalla tettoia il gatto guarda e tace.

Esco e mi siedo sull’orlo del poggetto.
L’erba è ustionata dai lunghi controra
di un’insaziata estate
che tende a oltrepassare la sua orbita
col carro dissennato di Fetonte.

Sfreccia un aereo: il rombo è di Tornado.
Marte stanotte è più che mai vicino;
ma non di guerra, di pace ho bisogno.

Gran silenzio nel cielo esterrefatto!
Venere non si scorge:
o è tramontata
o è coperta da qualche congiunzione.

No, non d’amore, d’oblio ho bisogno,
della capacità di rinunciare.

No desiderio no dolore… ma
che volontà ci vuole per non volere!
Non ricordare non desiderare:
ogni ricordo può essere usato
contro di me; e ogni attesa.
Non aspettare uguale a non amare;
non amare equivale a non volere…
No amore no attesa no dolore…

Vorrei volere, voglio, a tua insaputa,
chiamarmi fuori da questa partita e
prima che appaia Venere/Lucifero
- quasi tu fossi un’altra -
rinnegarti.
Ti voglio rinnegare e disconoscere
- quale tu sei –
come s’io fossi un altro.
Sì, per tre volte ti rinnegherò
perfino con me stesso
prima del canto del gallo.
Gli occhi senza risposta di sonnambulo,
adesso è qui
col taglio dell’orecchio ti rinnego
- quale tu sei e non sai –
un taglio netto!
prima che canti il gallo.
Nell’acquario il cielo è rosseggiante:
Marte a occhio nudo,
è l’astro più incombente.

Seduto in alto,
ignavo e supponente,
il gatto mi guarda come un Buddha.

Da notti e notti
il prato assetato di luna
ne attende ansiosamente la rugiada.
Dentro i cipressi, con la lingua secca,
i merli non riescono a dormire.

Ora non scrivermi, non telefonarmi.
No, Emme, non scrivermi
non cercare di prendermi ancora
col gioco senza fine dei perché
per il tuo verso.

Io non ti chiedo nulla.
So, come il gatto, eppure ho obliterato.
Rientro in casa. Staccherò il telefono;
non smanio più di trovare un messaggio
come un cane drogato la droga.
Semmai m’accenderò il televisore,
lo sguardo assente da ogni aspettazione,
e terrò spento l’occhio della mente.
Rispetterò la consecutio temporum
senza altri errori di coniugazione.
Solo le mamme continuano a portare
nel grembo il figlio che non è mai nato.
Tu, smagnetizza il codice d’accesso
ad un campo mentale che attraversi
a tuo piacere, attesa e inaspettata
come gli uccelli di stagione
come il corso di Venere
e come il vento.
Sottraiamo i giorni a venire
a quest’insensata alienazione
che lascia appesa la spoglia alla stampella.

Sì,
l’amore è la presenza rimandata
di un’assenza,
che si dispone e si riposiziona
come se la scala di Jacob
s’accrescesse via più di gradini
secondo il nostro bisogno di salire*.
Ma ogni giorno il risveglio sapevamo
che c’era il rischio dell’errore umano.

Adesso no, non dire altro, non scrivermi
non chiamarmi tre volte in un’ora
senza parlare
non mi braccare fin dentro me stesso
non farmi il vuoto spinto nel cervello
non depredarmi sulla via del sesso
di tutte le ragioni che sappiamo,
non nominare un’altra volta invano
il nome impronunciabile e ferito
dell’amore.
Gli occhi senza risposta dei sonnambuli,
pigliamo il verso per il suo rovescio
- senza un perché, senza un redde rationem – 
e, con mutuo recesso,
dall’oltre di noi stessi desistiamo.  

«Non lo farò,
e non perché non voglia.
La rana, quando le sponde
sono troppo larghe,
non salta in un sol balzo
il fosso.

Prende tempo…
da foglia a foglia, ecco
perché, perché non posso!

Da foglia a foglia
sì, da foglio in foglio…»*

 

 


* Versi di M.C.Z.P.
 

 
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