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GIORGIO MANNACIO: LE FOGLIE DELLA SIBILLA

 

 


                               LE FOGLIE  DELLA SIBILLA


                                 Addormentarsi all’alba


  All’alba , la coscienza del tempo durante il quale sarò sottratto a me stesso , rende gradevole il sonno  e meno minacciosa quella perdita di identità che ad esso si accompagna.
Si pensa che in così  esiguo tratto temporale non sia possibile l’arrivo di colei che annulla ogni risveglio, anche se sappiamo che il suo passo è estremamente veloce.
Si confida che il canto degli uccelli sui tetti, i rumori della nostra città, servano ad allontanarla da noi, per il momento, e,  perché no?, definitivamente. 

   
                                     Ad occhi aperti


E’ falsa l’affermazione che i veri eroi sono quelli che vogliono vedere la Morte ad occhi aperti.


Chi non ha paura di nulla, non teme neppure il vuoto che si spalanca in articulo mortis


Chi vuole vedere in faccia qualcuno ha – rigorosamente – qualcosa da rinfacciare a costui ovvero chiedergli qualche cosa.


Chi dice : voglio vederla in faccia pensa che le si possa chiedere – dopo la trattativa – una dilazione, anche se di un solo istante. Non è pronto a pagare il debito, immediatamente.  


                                 Lo spazio e la ragione


La vastità del mare aperto, che non pone neppure un ostacolo fisso allo sguardo, sembra attuare pienamente quella riflessione circa la successione degli spazi in una serie infinita che è il fuoco centrale di una delle meditazioni leopardiane. Di quest’ultima resta irrisolto però, in una pluralità di significati, il verso finale che suona così: e naufragar mi è dolce in questo mare.


Vogliamo credere che la perentorietà  della chiusa non segnali uno scacco della ragione ma, piuttosto, il suo limite che si esprime nell’ossimoro testuale della dolcezza di un evento altrimenti funesto.


Di fronte al concetto di infinito e alla sua rappresentazione fisica, la ragione non si perde affatto, non si dilata disordinatamente  secondo la suggestione della serie senza fine dei numeri, ma si concentra sull’oggetto della propria ricerca, ne individua i confini e, su ciò che in essi è compreso, scava con profondità inaudita e coraggio indomito. Acquista allora un senso concreto quello che Cassirer attribuisce a Nicolò da Cusa  e cioè l’ardire dell’originale affermazione secondo cui il cerchio è niente altro che un poligono con una infinità di lati.  

   
L’enunciazione, che può  apparire quasi un motto di spirito, un’arguzia intellettualistica per uscire da una aporia, rivela, sotto più aspetti, una concisa verità.


Se il riconoscimento dei limiti della conoscenza non sfocia in un nikilismo radicale, cioè nel rifiuto della esistenza stessa, è proprio in virtù della lettura interna del significato del limite.


Esso individua semplicemente un traguardo ma non si esprime rispetto al raggiungimento possibile di altri traguardi aperti alla forza della ragione e quindi anche alla confessione di una incapacità temporanea.


Quando gli spazi aperti, anzichè distrarci, favoriscono una maggiore concentrazione  ( quasi che l’impossibilità di cogliere l’attualità del compimento alimenti la riflessione sulla potenzialità della ricerca );  quando la conoscenza dello jato sempiterno tra cosa e parola si carica di tensione simbolica verso l’irraggiungibile oggetto in sé ;  quando un progetto politico costruisce una utopia non come non luogo che infrange nel mito della rivoluzione ogni azione umana ma come espressione continua di un governare accettabile; ecco, quando tutto questo accade, ci si accorge che il naufragio nell’infinito è un arrivo ad una terra che, comunque, ci appartiene.
                                 

 

 
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